Trieste con cinque giornate d'insurrezione fu libera prima dell'arrivo degli italiani

Trieste con cinque giornate d'insurrezione fu libera prima dell'arrivo degli italiani NOVEMBRE 1918, SI COMPIONO LE ASPIRAZIONI PEL RISORGIMENTO Trieste con cinque giornate d'insurrezione fu libera prima dell'arrivo degli italiani La rivolta cominciò quasi all'improvviso, il 30 ottobre - La Cecoslovacchia si era già proclamata indipendente, a Cattare- era scoppiata una sommossa - Quel mattino, senza preparazione, senza intesa, studenti, operai, donne di ogni partito, "nazionali" e "socialisti", si rovesciarono nelle strade - Fu un'azione breve, eccitata, esaltante - Le insegne con l'aquila bicipite furono rovesciate, il Luogotenente austro-ungarico venne costretto alla fuga - Non ci furono scontri - «Trieste - annunciò alla folla un aviatore, Giuseppe Pagliacci - si ricongiunge alla famiglia italiana» (Dal nostro inviato speciale) Trieste, 31 ottobre. Bandiere tricolori in tutte le strade, i muri tappezzati di manifesti con bersaglieri in corsa che suonano la fanfara, e Italie turrite che additano lontani traguardi, Trieste si prepara a festeggiare solennemente il cinquantenario del suo ritorno all'Italia. Su quella storica giornata. 3 novem¬ bre 1918, si sa quasi tutto: la spasmodica attesa della folla sulle « rive », la comparsa all'orizzonte dei set cacciatorpediniere italiani, l'attracco deil'« Audace » al molo che poi prenderà il suo nome. E. più tardi, a buio, fra scene di entusiasmo incontenibile, l'arrivo dei bersaglieri a bordo dei vaporetti di Venezia, scelti appositamente per il loro fondo piatto, che evitava il pericolo delle mine. Meno note, per lo meno al gran pubblico, sono invece le vicende delle cinque giornate immediatamente precedenti, quelle che videro l'insurrezione dei triestini, la fuga del luogotenente imperiale, barone Fries Skene, la costituzione di un Comitato di salute pubblica che, nonostante le estreme difficoltà del momento, superando contrasti politici ed etnici, riuscì a governare la città fino all'arrivo delle truppe italiane. Com'è facile immaginare, le condizioni di Trieste, in quelle ultime giornate di guerra, ermo quasi disperate. « Tutti i viveri di prima necessità e i combustibili, come petrolio, legna e carbone, erano stati tesserati e razionati — mi dice il comandante Arrigo Arneri, uno dei tanti capitani di marina mercantile in pensione che si adunano ogni giorno nel più vecchio caffè di Trieste, il Tommaseo —. La razione giornaliera di pane nero era di duecento grammi a persona; la complessiva settimanale di viveri per persona era composta da un uovo, 250 grammi di pasta, 250 grammi di farina scura, 100 grammi di verdura secca, 125 grammi di cicoria, 125 grammi di aceto, 25 grammi di sale, 30 grammi di strutto, 4 decilitri di olio. Il latte, scarsissimo, era riservato ai bambini e ai malati; la carne, cento grammi la settimana, ai meno abbienti. A intervalli di uno o due mesi c'era una distribuzione di patate, che veniva annunciata molti giorni prima, come se si trattasse di un grande avvenimento ». Su II Lavoratore, unico quotidiano di lingua italiana che si stampasse durante la guerra, si potevano leggere ogni giorno annunci economici di questo tipo: « Bicicletta quasi nuova scambio con grassi o farina »: « Calzoni grevi, scuri, buonissimo stato, quanta farina bianca, gialla, fagioli ricevo »; « Latte condensato cercasi scambio strutto maiale puro n; a Paltò Invernale cambio con lardo »; « Bollitore tre fiamme scambiasi con calzoni ottimi, statura alta », ecc. Quella che era una delle città più fiorenti dell'Impero aósburgico era alla fame. Fra tante miserie un unico vantaggio: negli ultimi mesi il regime poliziesco era venuto attenuandosi. Dopo la morte di Francesco Giuseppe e soprattutto dopo il fallimento dell'offensiva austriaca di giugno sul Piave, il gigantesco apparato absburgico, come un moribondo allo stremo delle sue energie, era venuto allargando le maglie. Così a Trieste in quei giorni d'ottobre c'era stato tutto un fiorire di comitati politici che preparavano concitatamente il terreno al gran giorno in cui la città avrebbe potuto ricongiungersi all'Italia. I primi segni della crisi definitiva si ebbero la sera del 29. quando in città si sparse la notizia che il giorno prima era scoppiata la rivolta a Cattaro. che la Cecoslovacchia aveva proclamato la sua indipendenza, e che gli italiani avevano attaccato sul Piave. Il giorno dopo, mercoledì 30 ottobre, l'insurrezione. In mattinata, partendo dal Caffè degli Specchi, in quella che allora si chiamava Piazza Grande e che poi fu ribattezzata Piazza Unità, un corteo di giovani con bandiere tricolori in testa si avviò lentamente per le vie del centro. Fu il segnale del via. All'improvviso, come per miracolo, a tutte le finestre comparvero migliaia e migliaia di bandiere italiane. Le insegne absburgiche con l'aquila bicipite, furono divelte, le bandiere austriache stracciate, i ritratti di Francesco Giuseppe, primo fra tutti quello del Caffè degli Specchi, fatti a pezzi e bruciati. Alle 2 del pomeriggio, a conclusione del suo interminabile giro, il corteo ritornò in Piazza Grande, dóve alcuni giovani, con l'aiuto dei vigili, riuscirono a issare una bandiera sul palazzo comunale. Poco più tardi un'altra ne sventolava sulla torre quadrata di San Giusto. Ma, come ricorda Giani Stuparich nel suo « Ritorneranno », quel giorno in Piazza Grande non c'erano soltanto bandiere tricolori, c'erano anche le bandiere rosse dei socialisti triestini. Ma un po' per il tradizionale civismo locale, un po' per la gioia che in quel momento accomunava quasi tutti, non ci furono scontr\ « Il 30 ottobre, accanto a grandiose manifestazioni nazionali, avevano potuto svolgersi anche dignitose manifestazioni socialiste », scrive in proposito nel suo primo numero un nuovo giornale La Nazione, diretto da Silvio Benco e Giulio Cesari, aggiungendo che per le vie della città, insieme con i tradizionali inni patriottici, si erano sentite anche, qua e là, le note della Marsigliese e dell' Internazionale. Questa pacifica convivenza e questa collaborazione fra « nazionali » e « socialisti» è rispecchiata anche dalla composizione del Comitato di salute pubblica, che assunse de facto il governo della città: dodici membri nazionali, dodici membri socialisti, ai quali, poche ore più tardi, si aggiunsero quattro rappresentanti della minoranza slovena. « No, la collaborazione fra nazionali e socialisti non presentò difficoltà, tutto andò liscio — mi dice il prof. Marino De Szombatelly, che in quei giorni era segretario del Comitato —; quanto agli sloveni, furono accettati previa assicurazione, s'intende, che la loro presenza non mettesse in alcun modo in causa l'italianità di Trieste e delle zone circonvicine ». In serata i rappresentanti del Comitato si recarono dal luogotenente dell'imperatore, barone Fries Skene, a comunicargli che per loro l'Austria non aveva più potere sulle terre irredente, il Comitato di salute pubblica intendeva assumere il pieno governo della città e delle zone circonvicine. Anche qui la civiltà delle due parti ebbe il sopravvento sulla drammaticità e sulla tensione del momento. « Sulla piazza si era raccolta una moltitudine enorme — scrive ancora La Nazione — il colloquio fu improntato alla massima correttezza. Il Luo¬ gotenente doveva aver compreso da vari giorni che il suo compito era divenuto molto semplice e che dipendeva da lui passare alla storia triestina come un perfetto gentiluomo ». Da bravo diplomatico, Fries Skene cercò di prender tempo, disse che avrebbe informato il suo governo. La mattina dopo, a scanso di guai, partì per Vienna con il « tesoro » ammontante a diverse decine di milioni. Quella notte a Trieste nessuno dormi. Il Comitato di salute pubblica si preoccupò immediatamente di bloccare i treni in partenza perché gli austriaci non portassero via i pochi viveri che ancora rimanevano, e organizzò numerose squadre armate per la tutela dell'or dine pubblico. Purtroppo i dimostranti, nell'euforia del primo momento, oltre ai prigionieri politici detenuti nelle carceri dei Gesuiti, avevano liberato anche i prigionieri comuni del Coroneo; ed era necessaria una sorveglianza attentissima. In un primo momento queste squadre furono formate soltanto da giovani triestini, ma poco dopo vi si aggiunsero ex prigionieri di guerra italiani, fuggiti dai campi di concentramento e anche militari cecoslovacchi che, per quanto avessero combattuto con l'esercito absburgico e ne indossassero ancora la divisa, erano lieti per la fine dell'impero e per la nascita della loro nuova patria. Il giorno dopo giovedì 31 ottobre, alle 11 di mattina, il passaggio di'poteri dalia Luogotenenza al Comitato di salute pubblica fu sanzionato anche dal punto di vista formale. Il Luogotenente, come abbiamo visto, era già partito per Vienna; ma i suoi funzionari, ossequienti come sempre alle forme, comunicarono al Comitato che la sua richiesta era stata accolta: l'Imperiai regio governo gli cedeva i pieni poteri. A questo punto bisogna avvertire le autorità italiane dell'accaduto. Un cacciatorpediniere della marina abìburgica ch'era stato abbandonato dall'equipaggio venne affidato all'unico ufficiale che, per averle disposte lui stesso, conosceva benissimo la disposizione delle mine nel Golfo di Trieste: Gian Paolo Vucetic, un capitano della imperial-regia marina, dì nazionalità serba e di sentimenti anti-austriaci, molto amico degli italiani. Con un equipaggio raccogliticcio e portando con sé tre membri del Comitato di salute pubblica — Marco Samaia per i nazionali, Alfredo Callini per i socialisti e Giuseppe Farfolija per gli sloveni —. la torpediniera partì alla volta di Venezia. Arrivati nella città sorella i delegati illustrarono la situazione al comando italiano il quale decise che l'indomani una squadriglia di sei cacciatorpediniere, seguendo la nave del capitano Vucetic che avrebbe loro indicato i corridoi fra i campi minati, sarebbe arrivata a Trieste. Così infatti avvenne. Però prima dei cacciatorpediniere alle due del pomeriggio del 3 novembre, apparvero sul cielo di Trieste sei idrovolanti monoposto dell'aviazione italiana che. fra l'entusiasmo delirante della folta assiepata sulle « rive » e sui moli, cominciarono a compiere evoluzioni. Alla vista di quella marea brulicante che sventolava verso il cielo bandiere e fazzoletti, uno degli aviatori, Giuseppe Pagliacci, non seppe resistere e, per quanto avesse come gli altri ricevuto ordini tassativi di non scendere, decise di ammarare. Un nugolo di piccole imbarcazioni si staccò immediatamente dalle rive: l'aviatore venne trasportato quasi di peso a terra, abbracciato, stretto, quasi soffocato. Poi fu portato in trionfo fino al palazzo della Luogotenenza « Sarò punito, ma non me ne dolgo — disse rivolto al la folla —. Fratelli, domani Trieste sarà ricongiunta alla grande famiglia italiana ». Gaetano Tumiati