Piccole storie di alcuni astronauti di Enzo Biagi

Piccole storie di alcuni astronauti GLI UOMINI CHE TENTANO LE VIE DELLO SPAZIO Piccole storie di alcuni astronauti Penso al vecchio Hermann Oberth. Le enciclopedie lo chiamano « il padre dell'astronautica », ma pochi lo ricordano. Capitai, una volta, nel paese di Feucht, dalle parti di Norimberga. Il professore mi ricevette nella sala da pranzo; i quadri rappresentavano paesaggi di montagna,-casolari dai tetti rossi, e ruscelli verde bottiglia. Mi parlò subito dell'anima, e mi spiegò che era riuscito a dimostrarne l'esistenza con esattezza scientifica. Poi della sua vita. Trent'anni prima, quando ancora insegnava in un ginnasio, affermò che era possibile costruire macchine capaci di andare oltre l'atmosfera terrestre, di vincere la forza di attrazione, di portare negli spazi creature umane. « "Fantasie", diceva la gente, " sogni irrealizzabili ", rispondevano gli esperti. Ma io avevo pensato alla navigazione tra le stelle — raccontava, — quando ero ap pena un giovanetto. Stavo leggendo un romanzo di Verne: "Dalla Terra alla Luna" Era notte, ero malato, e mi agitavo nel letto. Quelle pagine mi avevano turbato, ma non convinto. Così non può andare, mi dicevo, non può essere un cannone che spara l'uomo.. Qualcosa deve guidarlo in alto». Oberth descrisse poi il razzo portante, e ispirò la V1, disegnò la tuta dei piloti delle navi del cielo, e i pianeti artificiali, immaginò il futuro. A Berlino, tra gli studenti che seguivano i suoi corsi e le sue prove, c'era un attento giovanotto, un certo Wernher von Braun, ma il professore non aveva particolari ragioni per ricordarlo. Mi assicurò che attorno a noi ci sono altri mondi abitati, e che gli Uranidi, cosi li chiamava, ci guardano. Tentò anche di illustrarmi una sua nuova invenzione, un veicolo migliore di quelli della Nasa e dei russi, più economico, più sicuro, basato su un sistema di cuscinetti a sfere e sul principio dell'elicottero, riempi un taccuino di progetti e di calcoli, per tentar di vincere la mia ignoranza, un'ombra di diffidenza. Ormai, nessuno lo ascoltava: a Houston, a dar ordini c'era quel certo Wernher von Braun. Penso a Yuri Alexei Ga- garin. Lo incontrai a Tokio, un giorno di primavera del 1962, in un corridoio dell'Hotel Imperiai, aveva la camera vicina alla mia. Piccolo, rotondo, sorridente, occhi azzurri, lo mandavano in giro da tutte le parti. Non gli piaceva essere considerato un monumento, confidava, ma doveva adeguarsi alle esigenze della propaganda. Era pur sempre colui che aveva violato le frontiere dello spazio, un Cristoforo Colombo dei nostri tempi, un Eroe dell'Unione Sovietica. Il figlio di un falegname e della mungitrice di un kolkoz diventava il simbolo della Rivoluzione d'Ottobre: da operaio fonditore a maggiore pilota, a primo cosmonauta. Quando la Vostok ebbe iniziato il viaggio, i cittadini dell'Urss ascoltarono dalla radio il sensazionale annuncio, letto da Levitan, la voce delle grandi occasioni, dei momenti solenni, quella della conquista di Berlino e della morte di Stalin: « Vnimanie, vnimànie, attenzione, attenzione: una nave cosmica con un uomo a bordo è in orbita. E' un cittadino delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ». Era rimasto un ragazzo di campagna: gli onori, la fama, non l'avevano cambiato. Ogni domenica scappava con la famiglia nelle foreste, andava a pescare negli stagni, gli piacevano il cinematografo e la musica, distingueva, come quando era piccolo, e stava attorno al banco del padre, dall'odore dei trucioli, il faggio dalla betulla, il pino dalla quercia. In un libretto che scrisse subito dopo l'impresa c'è una frase che adesso sa ancor più di rimpianto e di tristezza: «Più di tutto avrei voluto vedere la Luna». Qualche mese fa è passato da Milano il colonnello John Glenn. Ha quasi cinquant'anni, calvo, faccia lentigginosa, segnata. Fu il primo a iniziare la corsa tra Mercury e Vostok, tra Gemini e Kosmos, il grande inseguimento: percorse tre orbite, scese felicemente in mare. Se Gagarin si ebbe i baci e i fiori di Nikita Kruscev, lui ricevette le strette di mano e le medaglie di John Kennedy. Le sue speranze sono finite in una stanza da bagno. La caduta di uno specchio lo fece scivolare, batté la testa, perse per un lungo periodo l'equilibrio, fu tolto dalla squadra. Smise di viaggiare come emblema, come rappresentante del coraggio e dell'intraprendenza americana; dalle sue parti, i miti passano in fretta, diventò un uomo d'affari della « Royal Crown Cola Company ». « Sono troppo vecchio per la Luna », dice senza apparente emozione, « ci andranno i giovani. Ho sbagliato appuntamento: dovevo nascere dopo ». Penso a queste storie, mentre l'«Apollo 7» sta cercando di superare le duemila ore di volo, prima tap¬ pa per la conquista del nostro satellite. E' la terza volta che Walter Schirra si siede al posto di pilotaggio di una navicella spaziale, e credo che anche ieri mattina, prima di salire, abbia chiesto come sempre al padre e alla madre la loro benedizione. Dicono che questa è la sua ultima avventura dentro una capsula. Ha ormai quarantacinque anni, e la pensione lo attende. Ha sfidato il rischio con umiltà, e si prepara serenamente a rientrare tra la folla. Quando, secondo le previsioni, nell'estate dei 1970, due uomini si aggireranno fra i crateri e le ceneri lunari, neppure Schirra ci sarà. Il tempo, dai lanci di Laika, la cagnetta russa, e di Abe e Baker, le scimmiette americane, è passato in fretta, toccherà a due aviatori ancora sconosciuti posare una bandiera tra quelle montagne sconvolte ed inesplorate. Questa, del resto, dovrebbe essere la morale della vita: un gradino dopo l'altro, per preparare la strada a quelfi che verranno. Enzo Biagi

Luoghi citati: Berlino, Milano, Norimberga, Tokio, Unione Sovietica, Urss