Gli ungheresi sentono come una vergogna il brutale attacco alla libertà di Praga di Sandro Viola

Gli ungheresi sentono come una vergogna il brutale attacco alla libertà di Praga CUPA ATMOSFERA DI DELUSIONE NELLA CAPITALE MAGIARA Gli ungheresi sentono come una vergogna il brutale attacco alla libertà di Praga Quel mattino del 21 agosto, allorché le truppe dei cinque paesi invadevano la Cecoslovacchia, fu come se la popolazione fosse stata colpita dalla folgore - I magiari ricordavano la « loro » rivoluzione del '56, non riuscivano a capire - Le stesse autorità furono colte di sorpresa, i gerarchi dovettero recarsi a « chiarire » gli avvenimenti nelle sedi periferiche e nelle fabbriche - Ma non bastò - Ora è stato imposto il silenzio, né la radio né i giornali parlano più di quei fatti, le discussioni sono finite - Nei bar di Budapest la gente nasconde l'amarezza sfogandosi con qualche storiella d'un patetico cinismo (Dal nostro inviato speciale) Budapest, 10 settembre. La storiella che ha più successo è questa. « Lo sai », chiede un tale a un amico, « qual è l'ultima moda di Praga? Pensa: quegli stessi stivali che si portavano a Budapest nel '56 ». Così, con un po' di cinismo (gli stivali sono quelli russi, lo stivale corto dell'Armata Rossa), gli ungheresi stanno reagendo al dramma della Cecoslovacchia. Un cinismo che lo psicologo chiamerebbe « di copertura », ma che già al primo controllo ri¬ vela ciò che nasconde: malinconia, delusione, vergogna, ^rabbia, smarrimento. La mattina di mercoledì 21 agosto, subito dopo che la radio dette l'annuncio, le autorità di Budapest presero qualche misura in vista d'una eventuale manifestazione. Un po' più di polizia per le strade, pattuglie della milizia operaia in alcuni punti ritenuti delicati: il monumento ai soldati russi sulla sommità della collina di Buda, la statua di Petòfl (da dove era partita, il 23 ottobre del '56, la rivoluzio¬ ne ungherese), l'Università, il Parlamento. Invece non accadde nulla. Non si vide un capannello, non si udì un grido. La calma di Budapest, quel giorno, fu una calma mortale. L'annuncio era infatti equivalso a una mazzata, un colpo fortissimo e improvviso. Nessun Paese del Patto di Varsavia, Romania compresa, aveva vissuto la « primavera di Praga » con altrettanta c.nsia e partecipazione dell'Ungheria; Se a Berlino Est, a Varsavia, a Bucarest e a Sofia gli avvenimenti cecoslovacchi parevano enormemente distanti, quasi lunari, così da provocare sentimenti misti d'attrazione e diffidenza, a Budapest essi apparivano invece come qualcosa di tangibile, un approfondimento, un completamento del processo di liberalizzazione che l'Ungheria ha conosciuto dal '60 ad oggi. Non era stato forse nel pieno della «primavera di Praga » che Kadar aveva fatto il suo discorso agli artisti, il più aperto, avanzato e insomma dubeekiano di quanti discorsi siano mai stati rivolti a un'assemblea di artisti in un Paese comunista? La libertà di stampa poteva sembrare a Varsavia un'utopia pericolosa; ma qui dove, almeno formalmente, non esiste più la censura, dove la stampa è la più varia e persino vivace del mondo comunista, gli slogans libertari di Praga, articolandosi ad un'attesa che dura da anni, erano divenuti il linguaggio stesso della speranza. Se ne ebbe una prova il 13 giugno scorso, quando Dubcek venne In Ungheria. Budapest si gonfiò fino all'inverosimile di folla entusiasta, e poiché le organizzazioni del partito non avevano previsto quegli ammassamenti, e dalle campagne, come d'abitudine, avevano condotto qualche migliaio di persone a batter le mani all'ospite, la città si trovò sull'orlo del caos, il traffico bloccato, la polizia nervosa, cose che da queste parti non succedono mai. Certo, dopo quei giorni della metà di giugno, quando prima Radar e poi l'ufficio politico del partito comunista ungherese si erano dichiarati a fianco dei cecoslovacchi, d'accordo con toro sul « nuovo corso », c'erano state Varsavia, Cierna e Bratislava, Quel precipitare di consultazioni, riunioni e dichiarazioni che non prometteva nulla di buono, aniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiMiiiMiiiiiiii zi. e che infatti ha condotto al dramma. Ma come nessuno in Europa, nemmeno gli ungheresi (cui il partito aveva intanto fatto sapere, attraverso le discussioni di base, che Kadar manteneva nelle conferenze la posizione più moderata, a volte prendendo persino le difese dei cecoslovacchi) si attendevano il gesto di forza. Perciò è stato duro, per gli ungheresi, sentire alle sei del mattino di mercoledì 21 agosto che la Cecoslovacchia era stata invasa. Perché l'invasione rappresentava insieme la caduta delle speranze e il ritrovarsi con le mani sporche. Così che la prima reazione non poteva essere, forse, che quella che è stata: attonita, vergognosa. Ma il fatto che da un punto di vista politico ha più rilevanza, è che la stessa reazione d'imbarazzo, di disagio, l'hanno avuta uòmini e istituzioni assai vicini al partito. Il modo in cui gli organi d'informazione del partito comunista ungherese si sono comportati nei primi quattro giorni successivi all'aggressione, contiene una forma magari labile e ambigua, ma certo percettibile, di dissenso, di cui si potrebbero cogliere tra non molto segni più vistosi. Per quattro giorni di fila sia il Népszabadsàg sia gli altri giornali non hanno pubblicato una sola riga sull'operazione militare e sugli avvenimenti di Praga che non portasse la sigla della Tass. Così la radio e la televisione facevano precedere ogni notiziario dalle parole: « L'agenzia Tass comunica... ». Sì è dovuto attendere il quarto giorno per leggere sul Népszabadsàg un commento anonimo sull'invasione, sulla sua necessità, e il sesto, il 26 agosto, perché un giornalista osasse firmarne uno. Finché il 27 non è apparso alla televisione il vicepresidente del Consiglio Lajos Feher, e per quaranta minuti, con un tono che non aveva nulla della sicurezza e dell'autorità con cui Feher è solito parlare, ha fornito delle spiegazioni sul come e perché il partito aveva deciso di partecipare all'intervento, sul perché non aveva informato sufficientemente la popolazione, ed erano spiegazioni sommarie, un po' confuse, dalle quali si capiva bene una sola cosa, e cioè che ai giornali, alla radio e alla televisione, erano giunte migliaia di lettere che non dovevano essere certo di consenso all'invasione. Alla prima reazione (quella, come abbiamo visto, dello sbigottimento e del silenzio) ne era infatti seguita un'altra. In questa seconda fase gli ungheresi devono aver parlato parecchio, forte e dappertutto, nelle fabbriche, nei restaurarrts coi violini tzigani, negli espresso-bar dove si vedono le minigonne più audaci d'Europa, nelle pasticcerie di gusto viennese. Tant'è vero che il partito è corso ai ripari, prima ha mosso Feher e poi Szirmoi. Szirmoi è il Suslov locale, e il discorso che ha fatto il 27 in una fabbrica di Budapest (dopo che nella notte c'era stata una riunione del Comitato centrale) è stato riportato solo parzialmente dall'agenzia di informazioni ungherese. Mot- te frasi te hanno dovute tagliare, e sembra che fossero quelle con cui Szirmoi rassicurava gli operai che l'azione contro la Cecoslovacchia non avrebbe avuto alcun riflesso sul processo di democratizzazione ungherese, li invitava a stare tranquilli e ad evitare, con le troppe discussioni, di turbare l'atmosfera. Ma pare che gli ungheresi parlassero ancora, per cui il 31, dopo una nuova riunione del Comitato centrale, gli inviti sono divenuti intimazioni: basta con le chiacchiere per le strade, se avete qualcosa da dire ci sono le istanze del partito. Dopo che la tempesta s'è abbattuta sulla Cecoslovacchia, l'Ungheria è certo il Paese più libero dell'Est europeo. Tuttavia le intimazioni del partito non vanno prese sotto gamba, la gente lo sa, e le discussioni sono finite. Allora è cominciata la terza fase, quella delle storielle e del cinismo patetico. Al Mikroscop, il kabarett più in voga di Budapest, il numero di Janos Komlos si è arricchito di varie battute sulla Cecoslovacchia. Komlos è un giornalista che ha una piccola rubrica alla televisione in cui critica le inefficienze del sistema, le magagne dell'amministrazione, le prepotenze della burocrazia; un paio di mesi fa, per esempio, quando il prezzo dei giornali subì un aumento, disse: « Cosi ora, per sapere che il dollaro va male, bisognerà pagare venti centesimi di più». Al Mikroscop Komlos appare con un cane di pezza, benissimo manovrato da dietro la scena, che muove orecchie, coda e tutto. Luì dice qualcosa, e il cane lo commenta con una mossa del corpo. Quando dice: «L'importante è la fratellanza dei Paesi socialisti », il cane ride. Quando dice: « Sta per giungere una grossa delegazione di camerati sovietici », il cane digrigna i denti. Quando chiede: « E la Cecoslovacchia, come va la Cecoslovacchia? », il cane si butta a pancia giù, sì appiattisce sulle tavole del palcoscenico, diventa una sottile striscia nera e quasi, nella piccola sala del Mikroscop, non si vede più. Sandro Viola 4