Cosa deciderà per il Vietnam? di Alberto Ronchey

Cosa deciderà per il Vietnam? Il 26 agosto la Convenzione democratica Cosa deciderà per il Vietnam? Da tempo corre la profezia che quando la campagna presidenziale americana raggiungerà la massima tensione — con la nomination del candidato democratico a Chicago; la Convenzione si apre il 26 agosto — qualche cosa accadrà nel Vietnam. Ma le opinioni su quanto accadrà sono discordi (una nuova offensiva vietcong, oppure un primo compromesso e un gran gesto di Johnson) mentre finora si trascina lo stallo diplomatico alla conferenza di Parigi. Dopo tre mesi di negoziati parigini, Harriman ha domandato all'interlocutore nord-vietnamita, Xuan Thuy, quanto a lungo dovrà ascoltare ancora « la frase » che vincola le trattative. «La frase» — cosi chiamata semplicemente dagli americani — dice testualmente: «Gli Stati Uniti devono cessare sema condizioni i bombardamenti e ogni altro atto di guerra sull'intero territotorio della Repubblica Democratica del Vietnam allo scopo di trattare poi sulle questioni di mutuo interesse». Thuy ha risposto ripetendo ancora « la frase » una mezza dozzina di volte nella stessa seduta. Johnson, a questo punto, ha dedicato ai nord-vietnamiti il suo discorso più aspro dalla vigilia del 31 marzo, quando annunciò la riduzione unilaterale dei bombardamenti. Il primo passo, sostiene il Presidente, fu compiuto il 31 marzo da Washington, ma il secondo passo della de-escalation spetta ad Hanoi, che all'opposto ha esteso la sua infiltrazione militare nel SudVietnam. «Questo presidente — ha detto Johnson — non si muoverà più. sul rischioso pendio delle concessioni unilaterali. Io dubito che qualsiasi presidente assumerà un punto di vista diverso ». Il segretario alla Difesa, Clark Clifford, aveva detto pochi giorni prima: «Tutto ciò che essi (i nordvietnamiti) devono fare è passarci parola che hanno ridotto il livello del combattimento, che continueranno a ridurlo e che questo rappresenta un passo di deescalation ». Tuttavia la materia è controversa, negli Stati Uniti o fuori. Vi è anche una tesi, secondo cui Hanoi ha già praticato silenziosamente una sua de-escalation (interruzione dei bombardamenti su Saigon, ridotta pressione sulle altre città) e ora aspetta davvero la decisione di Johnson. «Hanoi — ha osservato il Guardian — non può ammettere ufficialmente la sua de-escalation perché non ha mai accettato ufficialmente il diritto americano di porre condizioni». Dunque è il presidente Johnson che vuole «risparmiarsi il gran gesto » per il momento più opportuno? A Washington rispondono che Hanoi non ha concesso nulla realmente: ciò che può apparire una de-escalation sarebbe solo una fase di riorganizzazione e riarmo delle forze sul campo in attesa d'un nuovo attacco, mentre nel corso dell'anno l'infiltrazione dal Nord al Sud Vietnam avrebbe raggiunto il numero di 150 mila soldati. La complessità della guerra vietnamita e i negoziati a porte chiuse di Parigi non offrono dati di fatto sufficienti a dire chi ha ragione e chi si sbaglia. Ma il presidente Johnson sembra temere effettivamente una nuova offensiva come quella del Tet nell'interludio pericoloso fra due amministrazioni, a metà della campagna presidenziale, e forse durante la stessa convenzione di Chicago. Per anni, a chi gli chiedeva «Stop the bombing, stop the bombing », egli ha risposto: « Ma io sono pesponsabile per quegli uomini laggiù». Ora è possil'le che egli voglia almeno tirtmtirsi contro il rischio d'una offensiva vietcong contro « quegli uomini laggiù », in piena campagna presidenziale, dopo avere concesso il massimo. La strategia del combat¬ tere negoziando, l'alternanza fra offensive militari e gesti rivolti all'opinione interna americana sono del resto una tradizione dei go- verni comunisti asiaticL Se i negoziati di Parigi sono in corso da tre mesi, le trattative di Kaesong e Panmunjom con i nord-coreani occuparono due anni e dician- nove giorni dei tre anni che durò la campagna di Corea: e già il fatto compiuto, in quel caso, aveva fissato una linea di armistizio, mentre l'attuale conflitto vietnamita ha dato un groviglio inestricabile di linee, presidi e sacche. Durante la prima campagna d'Indocina furono complessi anche i negoziati di Ginevra: e allora la guerriglia aveva battuto i francesi in una serie di battaglie campali, mentre oggi non c'è una Dien Bien Phu conquistabile (i Vietcong possono irrompere nelle città, ma non le tengono) e d'altra parte la potenza americana non supera la prova della «guerra di pacificazione» nelle aree occupate, né trova rimedio all' estrema fragilità del sistema politico di Saigon. Se l'attuale conflitto vietnamita è più complesso delle passate esperienze, è temibile che siano più lunghi e complessi ora anche i tentativi di giungere a un compromesso. Col discorso di ieri, Johnson ha tentato una volta di più — forse l'ultima — d'abbreviare l'iter (l'accenno affinché Hanoi non si aspetti una politica diversa dal nuovo presidente), e insieme ha rivolto un richiamo ai « duri fatti » per l'opinione americana affinché non si faccia illusioni, in questo periodo di febbre elettorale, sull'effettivo progresso dei negoziati come egli lo intende: altro problema è se lo intenda bene o male, e su questo la disputa nazionale continua. Alberto Ronchey ,11' presidente Johnson durante H discorso tenuto ai" veterani di guerra riuniti a Detroit (Telefoto A. P.}-