Otto ergastoli al processo per l'uccisione del dott. Tandoy

Otto ergastoli al processo per l'uccisione del dott. Tandoy La sentenza a Lecce dopo 97 udienze Otto ergastoli al processo per l'uccisione del dott. Tandoy La massima pena detentiva inflitta all'ex giudice conciliatore Di Carlo e ai fratelli Luigi e Santo Librici quali mandanti di diversi delitti, compreso l'assassinio del commissario di P. S. - Gli imputati sono 22 - La riunione dei giudici in camera di consiglio è durata 10 ore (Nostro servizio particolare) Lecce, 23 luglio. Otto condanne all'ergastolo e altre pene detentive per complessivi 175 anni di carcere sono state inflitte stasera dalla Corte d'Assise di Lecce agli imputati per le tragiche e sanguinose lotte fra le « cosche » mafiose dell'Agrigentino che sfociarono nella uccisione del capo della Scua dra Mobile di Agrigento, dott. Cataldo Tandoy. I giudici sono rimasti riuniti per quasi dieci ore. I condannati all'ergastolo sono Antonino Bartolomeo: i fratelli Luigi e Santo Librici, l'ex giudice conciliatore professor Vincenzo Di Carlo, Giuseppe Galvano, Giuseppe Terrazzino, Giuseppe Lattuca e Giuseppe Casa. I fratelli Librici, secondo la Corte, sono esecutori o mandanti ovvero cooperatori dell'omicidio di Antonino Tuttolomondo, del commissario Tandoy e dello studente Nini Diamanti e del capo mafia Antonino Galvano. Anche Vincenzo Di Carlo e Giuseppe Galvano sono stati ritenuti mandanti dell'uccisione del Tandoy e di Antonino Galvano. Giuseppe Baeri, autore materùile del delitto, ha avuto 30 anni di carcere. II processo, iniziato il 22 novembre scorso a Lecce dove era stato assegnato per « legittima suspicione », è durato 97 udienze e ha concluso la lunga indagine sulla catena di crimini avvenuti fra il 1959 e il 1961 per il predominio nella mafia e dei quali il più clamoroso fu l'assassinio del dottor Tandoy. Il commissario di P. S. venne ucciso la sera del 30 marzo 1960, ad Agrigento, in viale delle Vittorie mentre stava passeggiando con la moglie Leila Motta. L'omicida — poi identificato per il carrettiere Giuseppe Baeri, trentanovenne, detto « Giocatone » — sparò sul funzionario, con la rivoltella, dalla distanza di pochi metri e feri mortalmente, per sbaglio, anche lo studente Nini Diamanti. Il crimine sollevò enorme scalpore. Gli inquirenti, in un primo tempo, seguirono I la traccia del delitto passio¬ nale perché si sussurrava che la moglie dì Tandoy fosse amica del professor Mario La Loggia, direttore dell'ospedale psichiatrico, e che un sicario avesse avuto l'incarico di « liberare » la signora dal vincolo coniugale. La pista si rivelò errata. Tre anni dopo un magistrato, il dottor Luigi Fici, riaprì le indagini sul « caso Tandoy » e scoprì che, dietro quella uccisione, v'erano altri cinque « delitti di mafia »: l'inchiesta, che portò alla incriminazione degli attuali 22 imputati, rivelò l'allucinante catena di crimini avvenuta fra le «cosche» dell'Agrigentino. Nel gennaio 1959 a Ruffadoli — un grosso centro agricolo a 15 chilometri da Agrigento — era stato ucciso il capo mafia Antonino Galvano. Il commissario Tandoy aveva denunciato i due presunti autori del delitto. Vin-1 cenzo Alongi di 36 anni e Giovanni Scifo di 30. Ma, secondo le voci correnti in paese, il crimine era stato ordinato dai fratelli Luigi e Santo Librici e da Antonino Bartolomeo, che voleva diventare capo mafia. Perché Tandoy non raccolse queste indiscrezioni e non cercò di risalire ai mandanti? Probabilmente perché, funzionario abile ma uomo molto prudente, capì che oltrepassare certi limiti sarebbe stato pericoloso, almeno in quel momento. Questo, tuttavia, non bastò a salvargli la vita. La mafia aveva saputo che il funzionario stava per essere trasferito a Roma e che egli si era ripromesso di svelare ogni cosa sul delitto Galvano non appena si tosse trovato distante dalla Sicilia. « La mafia — ha detto la sentenza istruttoria — intese cosi chiudere la bocca a chi, per partico¬ lari circostanze, avrebbe potuto tradire l'ambiente mafioso di Raffadali... ». La rivelazione si ebbe tre anni più tardi quando il giudice conciliatore di Raffadali e segretario della locale sezione della de, il prof. Vincenzo Di Carlo, si presentò al magistrato inquirente e raccontò, sotto giuramento, che: lì Tandoy non aveva denunculto i fratelli Librici come mandanti del delitto Galvano perché costoro erano i mezzadri di suo suocero, il padre di Leila Motta; 2) il Tandoy era stato ucciso su ordine dei Librici i quali temevano che il funzionario li denunciasse. a. c.