I negri d'Africa nelle Olimpiadi hanno grandi speranze di vittoria di Giorgio Fattori

I negri d'Africa nelle Olimpiadi hanno grandi speranze di vittoria UN'ATTESA CHE VA OLTRE LE BATTAGLIE DELLO SPORT I negri d'Africa nelle Olimpiadi hanno grandi speranze di vittoria Per la prima volta si presentano con trentadue squadre, alcune fortissime - Avevano già trionfato nella maratona con Abebe Bikila, l'etiope scalzò ormai diventato un «divo»; adesso puntano al successo in gare atletiche sinora monopolio dei bianchi: le corse di mezzofondo - «Kip» Keino, poliziotto del Kenya allenato da specialisti inglesi, è un grande campione e sarà favorito dall'altitudine di Città del Messico - Una vittoria indiretta già l'hanno ottenuta con l'esclusione del Sudafrica razzista - Il progresso sportivo dei neri non è dovuto alla «vita della foresta», ma al miglioramento civile: anche l'atletica ormai è studio e tecnica Roma, luglio. Kipchoge Keino, vedetta mondiale del mezzofondo, corre sempre per scaramanzia con un berrettino arancione in testa che butta ai margini della pista al momento dello sprint finale. I tecnici ritengono che a Città del Messico Quando volerà in aria il cappellino di Keino, starà per concludersi un avvenimento storico delle Olimpiadi: la vittoria di un negro d'Africa in una specialità classica dell'atletica leggera, i cinquemila metri. Confinati per mezzo secolo nel folclore sportivo, gli africani si affacciano ora in massa alle Olimpiadi. . Nel passato vi sono state poche Africa, cioè di paesi più europeizzati, come il mezzofondista algerino Alain Mimoun e il fondista tunisino Mohammed Gammoudi. Poi il caso sensazionale di Abebe Bikila, maratoneta abissino vincitore a Roma e a Tokio, in gara a Città del Messico per la terza medaglia consecutiva. In Giappone gli africani sì presentarono per la prima volta con uno schieramente discreto, ma la grande parata avverrà in Messico. Sono iscritti 32 paesi dell'Africa e alcune squadre si annunciano fortissime: prima fra tutte quella del Kenia con il veterano di Tokio «Kip» Keino, il fondista Naftoli Temu, Ben Kogo nella -corsa a siepi, Kiprugut Chuma negli ottocento metri. Sono nomi familiari agli specialisti ma completamente sconosciuti al pubblico. Tra loro vi sono dei favoriti. A differenza dei negri americani, fulmini della velocità, gli africani hanno campioni nelle corse di resistenza e i 2200 metri d'altezza di Città del Messico daranno un vantaggio agli uomini degli altipiani, atleti del Kenia e dell'Etiopia. Abituati a correre tutto l'anno in atmosfera povera d'ossigeno, non rischieranno crisi di respirazione sulla lunga distanza. Alcuni dèi più grandi atleti africani sono bianchi, ma non gareggeranno in Messico. Il Sud Africa aveva due candidati alla vittoria: il velocista Paul Nash, un allegro gigante dai capelli rossi, e la nuotatrice quindicenne Karen Muir. Il tentativo è ora di contrabbandarli nella aquadra inglese, con espedienti di regolamento, ma sembra una mossa azzardata nella tensione razziale che dominerà le Olimpiadi messicane, da tempo sul fi lo della « contestazione Fra l'altro lo strattagemi. finirebbe col punire solo i negri della squadra sudafricana, magro risultato per quanti hanno sostenuto con intransigenza l'esclusione dei razzisti dai Giochi. Ci sono perciò poche speranze per Karen Muir, una ragazzina lentigginosa e dall'aspetto insignificante che il padre, un veterinario di Kimberley, mandò in piscina su consiglio dello psicologo per vincere con la vita di gruppo i complessi di timidezza. La piccola Karen si applicò al nuoto con tenacia, e forte di una quasi miracolosa predisposizione a dodici anni aveva battuto il recordo di velocità sul dorso. Nella storia dello sport non c'è mai' stata una pri¬ matista mondiale così giovane:- Piatta come una sogliola, 48 chili di peso, Karen Muir rappresenta bene il tetro mito moderno della campionessa: niente capricci e divertimenti, vivere solo in acqua, super specializzar si a costo di qualunque sacrificio. Nelle piscine del Sud Africa, dove Karen Muir macina da tre anni infaticabili bracciate, i negri non sono ammessi nemmeno come spettatori. Ed ora tocca a lei, coscienziosa ragazzina prodigio, essere esclusa dalla piscina di Città del Messico. Senza africani bianchi, le due stelle del continente in Messico saranno l'indistruttibile Bikila e il primatista dei cinquemila metri Keino. Tutti e due sono militari: Bikila è tenente delle guardie del Negus, Keino poli- ziotto. Il maratoneta abissino ha una sua leggenda vecchia di i'ue Olimpiadi: solitario cursore degli altipiani dove si allena a piedi scalzi, uomo semplice e triste, dalla vita severa, chiuso nel suo unico sogno, i 42 chilometri della maratona. In realtà il successo ha cambiato Abebe Bikila, come accade ai suoi fratelli bianchi. Là parte di eroe nazionale l'ha fatto esigente e volubile, dicono ad Addis Abeba. Ha divorziato dalla moglie rispedendola al villaggio e nell'esercito abissino non è più un idolo come un tempo. Il tucul dei suoi biografi è un lontano ricordo, vive in un appartamento moderno con la macchina alla porta. Lo sport l'ha reso famoso e abbastanza ricco: è un divo a piedi scalzi (ma in Messico correrà con le scar: pette di gomma come tutti) che sottolinea le sue piccole stravaganze: per concentrarsi alla maratona fa lunghe partite di dama, mangia pochissimo e si avvolge nel suo mistero di instancabile camminatore non dando confidenza a nessuno. Forse non è più « l'umile fraticello » della leggenda, ma sempre uno straordinario campione. Ha trentasei anni e se vincerà in Messico sarà promosso capitano. E' fiducioso di vincere anche alle Olimpiadi di Monaco nel '70: 1 maratoneti non hanno età. Quel giorno lo ritroveremo colonnello con nelle gambe secche e polverose i chilometri di una vecchia automa bile. Bikila è ancora un atleta all'antica, come il pubblico s'immagina che debbono essere gli africani. Kipchoge Keino è invece già un prodotto dello sport razionale, allenato da istruttori inglesi, con la dieta fissata dai medici e le tabelle di corsa studiate a tavolino. Per mol ti anni è stato un campione spontaneo senza consiglieri e cronom 'i appresso. Proviene da n villaggio poverissimo, li lui non si sa né il giorno né il mese di nascita, solo che ha ventotto anni. Poi ha cominciato a girare il mondo e a entrare nello schema dello sport da laboratorio. I suoi limiti atletici sono ancora scono sciuti e forse solo a Città del Messico darà l'intera misura delle sue possibilità. E' sposato, ha una bambina. Il suo grande orgoglio è di battere i record africani più che quelli mondiali, ma | non ha niente del selvaggio eorridore della foresta. Colleziona ì dischi dei Beatles, legge romanzi americani, conosce a fondo il valore delle vitamine nell'alimentazione dì un atleta. E' solo molto superstizioso, ma questa non è prerogativa africana. Cinquantanni fa un inglese corse la finale olimpica dei 110 ostacoli con la Bibbia in mano, perché era domenica e temeva di far dispiacere al Signore. I balzi felini, gli allenamenti naturali con la zagaglia dietro l'antilope, l'incredibile resistenza alle privazioni, sono tutti pregiudizi vagamente razzisti nel giudicare le possibilità atletiche degli africani. La vita delle foreste e delle savane non è un magico tirocinio e nello sport moderno, che richiede l'attento studio tecnico delle disposizioni naturali, i risultati arrivano quando si esce dalla vita primitiva. Le leggende dei watusst che saltano più in alto di qualsiasi primatista mondiale, non hanno mai trovato riscontro all'indagine dei tecnici. L'Africa invierà in Messico campioni completi e preparati, e i successi saranno la testimonianza del faticoso ma sicuro cammino verso una vita più civile. Giorgio Fattori