Vico scrittore

Vico scrittore Creatore di miti e « poetai della storia Vico scrittore Di altri filosofi si può tra•curarc lo stile, non del Vico, per il quale la considerazione del prosatore è ben più che un complemento opportuno allo studio del pensiero. Per due ragioni opposte: per la tante volte rilevata oscurità dell'esposizione anzitutto, tanto scarse erano nell'autore della Scienza nuova le qualità comunicative, didascaliche, che pur dovrebbero essere il requisito primo in uno scrittore di una qualsiasi disciplina. Sennonché quel cattivo scrittore è nello stesso tempo uno scrittore potente, anzi di singolare potenza, dotato di un afflato poetico sì che lo si è potuto giudicare il maggior poeta di un'età così scarsamente poetica come fu la sua. Si aggiunga che i difetti fin troppo evidenti del suo stile non hanno origine da una tra, scuranza dei valori formali: che anzi il maestro di istituzioni latine, l'ammirato autore di epigrafi, orazioni, storie latine ebbe un senso vivissimo della disciplina artistica, una sollecitudine unica forse in un filosofo per la proprietà e l'energia dell'espressione, alieno quant'altri mai dal gergo in cui troppo sovente s'impigliano e c'impigliano scrittori di cose filosofiche, e amante sempre di voci concrete, concretissime o, per usare una parola sua, « corpulente ». Prima che filosofo egli fu, ricordiamo, umanista, l'ultimo degli umanisti, si potrebbe anche dire; e anche il suo italiano risente di questa fondamentale impostazione latina del suo discorso, nella struttura del periodo, in tanta parte del lessico, in certe costanti stilistiche. Di qui, se pur non di qui soltanto, il carattere di severità e talora di solennità della sua pagina, e insieme un che di staccato, di remoto dal presente, tale da incutere soggezione più che confidenza nel lettore. Ma il mondo storico e letterario dell'umanista è stato animato e direi sconvolto da uno spirito nuovo con la scoperta che il filosofo ha fatto del mondo della storia, di una storia non composta entro fissi moduli di eventi e personaggi esemplari per ogni tempo, bensì una storia complessa e drammatica che gronda lagrime e sangue, la storia non di alcuni pochi individui, ma dell'umanità tutta, che faticosamente e lentamente si disviluppa dalle età più remote degli « stupidi insensati ed orribili bestioni » alle età degli eroi grandi e terribili, quali ci si presentano nell'epopea omerica e intravediamo nella storia romana, sino ai tempi della « ragione tutta spiegata ». Dissolto il mondo composto e concluso dall'umanesimo e disvelatasi all'occhio rapito del pensatore tutta la faticosa storia degli uomini, com'era possibile costringere quella storia nel latino umanistico, o in un italiano tutto e soltanto esemplato sul latino come quello delle due sue lavoratissime Orazioni funebri? Come dar voce alla commozione sua nel sentirsi chiamato dalla Provvidenza a intendere lui primo, lui solo il corso della storia umana, la sua tragedia e la sua grandezza? Con l'italiano della Scienza nuova, e in particolare della Scienza nuova seconda, la prosa del Vico acquistava, per così dire, una terza dimensione: i suoi ampi periodi, latinamente costruiti e intessuti di tante formule e locuzioni caratteristicamente latine, portato naturale oltreché del suo gusto della stessa materia, si animavano per l'afflusso di tanti elementi di tutt'altra origine, di modi letterari come di modi popolari, di vocaboli anche rari della lingua italiana come di vocaboli del suo stesso dialetto. Ne nasceva un linguaggio singolarmente mobile e vario, ben atto a significare il complesso stato d'animo dello scrittore; vi si componevano mirabilmente tutte quelle im- magini dei miti e della poesia delle prime età, fra cui il Vico viveva rifacendo in sé un animo primitivo e gareggiando, diremmo, coi suoi poeti-teologi e poeti-eroi. Perché se della storia della mente umana egli sopra tutto si affisò sul momento mitico, venne a essere egli stesso prima che filosofo, creatore di miti, o se più piace un filosofo mitizzante. E miti prima ancora che concetti sono, si può dire, tutti i suoi: mito, la « storia ideale eterna », le tre età degli dèi, degli croi e degli uomini, il « divagamento ferino » e la prima rivelazione della divinità tra le folgori e i tuoni; mito il suo Omero c il suo Achille (un personaggio ben suo assai più barbarico dell'omerico), e la « barbarie ricorsa :» c Dante il « toscano Omero», da lui in certo senso reinventato. S'intende che in questo carattere mitico è il limite del suo pensiero, ed anche per certi rispetti il limite della sua prosa, troppo fantastica per essere filosofica, troppo, come pur doveva essere, speculativa per essere puramente e pacatamente poetica. Si direbbe che nel travaglio stesso del pensiero e dell'espressione si andassero sviluppando le qualità opposte del suo ingegno, cosicché dal latino didascalico del Diritto universale si passa alla Scienza nuova prima e da questa alla Scienza nuova seconda, tanto più ampia e tanto più complessa, ma insieme tanto più diseguale, meno discorsiva c a tratti più vigorosamente poetica: eppure soltanto in quest'ultima è il Vico nella pienezza della sua personalità, per la stessa compresenza non sempre armonizzata di tendenze, com'egli ben sapeva, mal conciliabili. Vi sono però momenti in cui lo scrittore riesce a superare quel contrasto, che rende a lui così difficile, come a pochi altri, il raggiungimento di un proprio linguaggio: come quando gli è dato comporre la verità che gli si è scoperta in sentenze quasi di oracolo, in tante di quelle che egli ha chiamato « degnità » e in altri passi consimili, in cui forza di raziocinio e intensità di visione e di sentimento anziché contrastare, vicendevolmente si potenziano. Non solo in quelle sentenze o frasi o voci intensissime, a cui è rimasto affidato il suo pensiero, e che vivono come tipicamente sue nella memoria di tutti; ma anche in più disteso discorso, ir. cui mercé quei modi può avere espressione non il suo mondo concettuale soltanto, ma la reazione dell'animo suo di fronte alla realtà che gli si è scoperta, « quel battito forte di intima vita », di cui parlava il Tommaseo, « quell'accento di un uomo che parlando reprime un gemito e contemplando patisce ». Così il Vico comprende e ammira Achille, il massimo dei greci eroi, ma compiange, e sembra non trovar parole a sufficienza pietose, le vittime di lui, Ettore e il vecchio Priamo, e i greci miseramente battuti dai troiani a cagione di un suo puntiglio, e infine immolata sulle sue ceneri « l'infelice bellissima real donzella Polissena della rovinata casa del poc'anzi ricco e potente Priamo ». Intende le ragioni della condotta dei patrizi romani, così duri verso la plebe, così restii ad attenuare anche di poco la condizione d'inferiorità di coloro che essi consideravano di natura diversa dalla propria, ma soffre nello stesso tempo con quella plebe, con quella « misera infelice plebe », anzi con « la povera multitudine di tutte le nazioni », esposta alle medesime sofferenze di quella romana. Esemplare fra tutte la pagina in cui egli rievoca come in altrettante epigrafi le più caratteristiche figure di quei patrizi, con le loro gc sta leggendarie, e a quelle gè sta gloriose contrappone il loro atteggiamento verso i plebei. « Bruto che consagra con due suoi figliuoli la sua casa alla libertà; Scevola che col punire del fuoco la sua destra, la quale non seppe ucciderlo, atterrisce e fuga Porsena, re dei toscani; Manlio detto l'imperioso, che per un felice peccato dì militar disciplina istigatogli da stimoli di valore e di gloria fa mozzare la testa al suo figliuolo vittorioso; i Curzi che si gittano armati a cavallo nella fossa fatale; i Deci, padre e figliuolo, che si consagrano per la salvezza de' loro eserciti; i Fabrizi, i Curii che rifiutano le some d'oro da' Sanniti, le parti offerte de' regni da Pirro; gli Attilli Regoli che vanno a certa crudelissima morte in Cartagine per serbare la santità romana de' giuramenti; che prò' fecero alla mìsera ed infelice plebe romana? Che per più angariarla nelle guerre, per più profondamente sommergerla in mar d'usure, per più a fondo seppellirla nelle private prigioni de' nobili, ove gli battevano con le bacchette a spalle nude a guisa di vilissimi schiavi? ». Proprio in questo contrasto, commenta come non si potrebbe meglio il Salvatorelli, « tra la freddezza quasi machiavellica con cui la mente del Vico guarda ai fatti,, ne scruta le cause, ne afferma le necessarie, fatali concatenazioni, e il calore di sentimento che sovente gli colorisce la parola e quasi gli fa tremar la penna in mano, e un'altra e precipua sorgente della grandezza di Vico scrittore ». Ed è pure, sempre a giudizio del Salvatorelli, uno stimolo a andar oltre le conclusioni del filosofo per giustificare anche speculativamente le esigenze che si fan valere nella sua commossa prosa. Certo la stessa complessità dello stile vichiano, che concilia negli ampi periodi e nella varietà stilistica e lessicale il raziocinio severo, la vivace passione, l'eroismo dei primitivi e gli ideali etici dell'età umana, e accanto agli eroi e alle loro vittime ci fa sentire presente sempre nella sua pensosa umanità la persona dello scrittore, ben vale a rendere la complessità della storia, il suo intimo dramma. Perciò lo studio dello scrittore non è appendice o corollario dello studio dei suoi concetti, bensì viene a costituirne una parte integrante. Mario Fubini

Persone citate: Curzi, Fabrizi, Mario Fubini, Salvatorelli, Scevola, Tommaseo