Le tre vedove di Enzo Biagi
Le tre vedove ETHEL, CORETTA KING, JACQUELINE Le tre vedove Sono passati appena due mesi. Era il 9 aprile, ad Atlanta, Georgia. Un carretto di campagna, trainato da due muli, portava al cimitero la salma del dottore in teologia Martin Luther King. Non c'erano musiche né bandiere. Solo il cantante Belafonte intonò i versi di uno spiritual che comincia: « Sono debole, sono stanco, e non mi senio più di questa terra ». Coretta King seguiva la bara coperta di magnolie, senza piangere, e guardava estatica la grande folla; a un tratto, una giovane donna bianca le andò incontro e l'abbracciò. Er,a Jacqueline Kennedy. Fra le migliaia di telegrammi che arrivano alla casa di Hickory Hill, dove i più piccoli dei figli di Bob, guardati dalla governante c da vecchi amici della famiglia, continuano a correre per i prati, a gettarsi in piscina, a giocare con l'altalena (« Più in alto, ancora più in alto t, li incitava Robert, « un Kennedy non ha paura di niente t), fra i tanti messaggi, ce n'e uno indirizzato a mrs. Ethel che dice: « Signora, prego per suo marito, di cui ho profondo rispetto, e prego per il nostro Paese, in questo momento di tragedia nazionale ». E' firmato dalla vedova del pastore negro, andato a morire per difendere duemila spazzini della sua gente, che a Memphis scioperavano per ottenere un giusto salario. Ho sotto gli occhi un giornale straniero. C'è un titolo a piena pagina che riassume una storia: « Una famiglia votata alla gloria e all'infelicità ». Penso a « Jackie » Bouvier e ad Ethel Skakel, due ricche ragazze che vollero dividere 10 splendido e amaro destino dei Kennedy. A « Jackie », raffinata, intellettuale, che ama dipingere, parla le lingue, e quando era la first Lady degli Stati Uniti riempiva i saloni della Casa Bianca di invitati per un concerto di Pablo Casals, che amava ricevere gli scrittori e gli artisti, a « Jackie », che in quella eterna notte di novembre volle che i collaboratori di John ricercassero nella biblioteca del Campidoglio la cronaca dei funerali di Lincoln, 11 cerimoniale, perché anche al suo John dovevano essere resi gli stessi onori. Penso a « Jackie s» che raccoglie, per una mostra, le fotografie e gli oggetti che gli furono cari: un modellino di cannoniera, ad esempio, testimonianza della guerra, la seggiola a dondolo per la schiena dolorante, le immagini della politica, ecco gli incontri con Kruscev e De Gaulle, il viaggio a Berlino, la sosta nei villaggi irlandesi, e quelle della semplice vita: una solitaria passeggiata nel vento di Hyannis Port concludeva il troppo breve racconto. « Voglio », disse Jacqueline, « che il mondo si ricordi di lui, che senta il vuoto che ha lasciato ». Ethel Skakel non ha il fascino mondano di Jacqueline; era la giusta compagna per Robert che da bambino, mentre John passava le ore sui libri, allevava conigli bianchi, praticava il pesante joot-ball americano, discuteva soltanto di politica e di sport. Ethel lo conobbe su un campo di sci del Vermont, quando aveva 17 anni, e si innamorò subito di quel giovanotto che le proponeva corse in canoa lungo le rapide; era un tipo meno brillante del fratello maggiore, ma fermo nelle sue convinzioni, duro, tenace, anche se sembrava qualche volta contraddittorio: spietato nella battaglia contro i racketeers, tenero quando prendeva la mano ai bambinetti negri o portoricani che gli correvano incontro. Per questo, mentre il suo addetto stampa leggeva ' la notizia del decesso, un ragazzino dalla pelle scura ha urlato: « Era il solo nostro amico in mezzo ai bianchi ». « Vogliamo un mondo più nuovo », era il suo motto, e il suo programma. E un commentatore della radio americana ha detto: « Se ne è andata fa speranza ». Penso a Natale, quando attorno al vecchio Joe Kennedy si raccoglieranno, con Jacqueline, John e Caroline, i dieci bambini di Robert e ci sarà anche l'ultimo, quello che sta per arrivare. Ethel, dicono, è energica, forte, « di una fredda lucidità », spiegano gli intimi, proprio come. Bob la voleva, e saprà crescerli secondo le regole che Robert aveva imposto alld sua tribù di Hickory Hill: scuola pubblica, in mezzo ai figlioli dei bottegai, degli impiegati, di quelli delle fabbriche; chi vuole qualche dollaro deve guadagnarselo tagliando l'erba, o governando i cavalli; senso del gruppo, del clan, tutti per uno; gusto per la lotta, che accompagna sempre l'esistenza. Quando erano fidanzati, Ethel regalò a Bob una medaglia, con le figure di San Cristoforo e di San Michele, due guerrieri celesti. Sconvolta per quello che è accaduto a Los Angeles, Jacqueline ha mormorato: « Non è possibile, ditemi che non è vero, che non è ricominciato ». Hanno taciuto tutti. Dal 22 novembre 1963, era passato da poco mezzogiorno a Dallas, ad oggi, « la società malata » americana, come la chiamava Luther King, ha riempito le cronache con quattro delitti: uno nel Texas, e cade John Kennedy; uno a New York, e un negro uccide un altro negro, come i bianchi uccidono altri bianchi, e cade Malcolm X; uno a Memphis, sul Mississippi, e qualcuno, con una carabina, mira al pastore King, che considera i nemici degli infermi, e vuole curarli; poi, la California. E nessuno si è meravigliato, quando accanto alle vedove di Dallas e di Los Angeles, è apparsa la fièra Coretta Scott, sposa del dottor King, perché sono le vittime di una stessa violenza, e le testimoni di generose ambizioni. Disse King durante un sermone queste parole che sono giuste anche per Kennedy I e per Kennedy II: « Se incaricherete qualcuno di pronunciare un'orazione funebre, ditegli che non sia troppo lunga. Se vorrà dire che fui un tamburo maggiore, dica che lo fui per la giustizia, e che tentai di spendere la mia vita per aiutare gli* altri, vestire gli ignudi, nutrire gli affamati; che tentai di amare e servire l'umanità ». Enzo Biagi Tre donne accomunate da state ritratte ieri dopo un un tragico destino: Ethel, Jacqueline Kennedy e Coretta, la vedova di Luther King. Sono servizio funebre in memoria di Bob Kennedy nella cattedrale di St. Patrick (Telefoto)
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