A che serve il latino insegnato nei licei? di Luigi Firpo

A che serve il latino insegnato nei licei? MEGLIO ABOLIRLO CHE STUDIARLO MALE A che serve il latino insegnato nei licei? Gli studenti della facoltà di Lettere di Roma, chiamati a sostenere la prova scritta di versione dall'italiano in latino, si sono ribellati e hanno rifiutato di affrontare gli scogli e le secche di una navigazione giudicata troppo insidiosa. Proprio facilissimo, in realtà, il passo proposto non era: ma dire, come Fcrravilla, « non accetto », non è il modo più costruttivo per affrontare i problemi della riforma universitaria. Altri hanno motivato il rifiuto appellandosi non già alle difficoltà testuali, ma al carattere ideologico e provocatorio delle massime dettate, cstratte nientemeno che dal famoso libretto rosso di Mao. Anche qui le velleità della contestazione più o meno globale fanno scambiare le ombre per cosa salda. Ideologia per ideologia, non ce n'è di meno in uno dei consueti brani di Manzoni o di Leopardi, che generazioni di studenti si sono.arrabattati a trasporre in formule ciceroniane, ne sarà mai il contenuto di una paginctta a turbare le coscienze dei candidati. Anzi, la natura stessa di Una prova di traduzione è tale, che il messaggio etico, politico o tecnico di un contesto resta in un certo senso estraneo e indifferente, anodino. L'unica cosa che per l'esaminatore ha rilievo, è il modo in cui il candidato supera certe difficoltà lessicali o sintattiche e raggiunge un eerto livello di fedeltà, scioltezza ed eleganza: ma questi controlli agiscono sia che si operi su una pagina del Machiavelli o su un'istruzione per l'uso degli apparecchi elettrodomestici, visto che entrambe possono proporre problemi di periodo ipotetico o di consecutio temporum. Ha ragione, dunque, il prof, Visalberghi quando si domanda se non sia tempo ormai di prendere in esame la questione intera dell'utilità e dell'opportunità di una prova, che perpetua e in certo senso consacra un procedimento artificioso, un'inversione assurda: il trapasso da una lingua viva ad una morta, l'anti-storia. Leggiamo periodicamente che dotti prelati romani hanno escogitato ingegnose perifrasi per esprimere in latino concetti attualissimi, come radar e fissione nucleare, e si può indulgere a questo compiaciuto accademismo considerando che nelle cancellerie il latino era, lino a ieri almeno, la lingua d'obbligo, e perciò viva, anche se viva in modo illusorio e artificiale, quasi una statua di cera. Se si guarda un poco più addentro, non si tarda a riconoscere che l'intera questione del latino nella scuola italiana continua a venir considerata con scarso realismo, soggiacendo ai miti retorici della « romanità » imperiale e della delibazione diretta dei classici in funzione educativo-rassererf&ntc. Quando nei primi gradi della nostra scuola media l'obbligatorietà del latino venne soppressa, dovunque risuona rono grida d'indignazione, accorati rimpianti: pochi si resero conto che quel decreto, come Maramaldo, uccideva un morto. Perché, a ben guardare,- il latino in Italia, da un secolo almeno, lo si studia malissimo, dissipando mezzi, tempo e fatica ingenti per conseguire risultati quasi irrisori. La riprova solare è sotto gli occhi d tutti: dopo otto lunghi anni di studio, con alto I numero di ore settimanali di lezione, il discepolo viene chiamato a dar saggio del sapere acquisito tra ducendo una magra paginetta, nel tempo non certo esiguo di ben quattro ore,' con l'aiuto di grossi e smaliziatissimi dizionari che spianano ogni diftì colta immaginabile. Io mi domando che cosa accadrebbe a un interprete d'inglese o di francese che si presentasse con credenziali di questo stampo. Ma c'è di più. Questo apprendimento esile e malsicuro tende a dissolversi con impres¬ sionante labilità. Al secondo anno di Università, cioè a quindici mesi circa dal conseguimento della maturità classica, neppure uno studente su dicci è in grado di intendere correttamente una pagina latina, mentre una 'buona metà non riesce a cogliere nemmeno il senso generale del discorso, l'argomento di cui si parla. Quando il fenomeno raggiunge dimensioni di questa ampiezza, la colpa non può più essere degli studenti, ma è della scuola. Il nostro ginnasio-liceo è storicamente l'erede dei settecenteschi collegi dei nobili, dove il vertice e la stimma del sapere consistevano nell'abilitare il giovane a com,porre distici latini e sonetti per monacazione. Il positivismo ha vittoriosamente spezzato questo schema di falso umanesimo, introducendo nella scuola i rudimenti delle scienze naturali, ma le scienze dell'uomo ne sono tuttora rigorosamente escluse. Net nostri licei non si studia diritto, né economia, né sociologia: gran posto vi hanno invece e Metamorfosi di Ovidio e Tibullo e le pastorellerie bucoliche e il compiaciuto forma: lismo ciceroniano. So bene che qualcuno, a questo punto, mi tratterà da iconoclasta; e non saprà con quanta tenerezza mi risuonino nella mente i ricordi dell'infanzia: « Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi... ». « Phaselus Me, quem videtis hospites... ». « Ouis fuit horrendos primus qui protulit enses... ». Ma il dovere morale dell'intelligenza è di essere spietata. Sul razzo interplanetario che salverà, salpando verso altri mondi, l'essenza della nostra civiltà, credo che due soli testi del latino classico troveranno posto, entrambi amarissime voci del pessimismo virile: Tacito e Lucrezio.Inoltre, il latino che si studia nella nostra scuola, non è, come si crede, il latino tout court, ma una lingua in parte artificiosa, impiegata a Roma in ambienti colti e cortigiani, lungo l'arco di poco più di un secolo, tra la fine della repubblica e i primi decenni dell'impero. Solo quelli sono i buoni scrittori, i modelli del¬ l'età aurea: altri, tanto più vivi, da Plauto a Petronio, ad Apuleio, son messi al bando per una pruderie che fu puristica ancor prima che puritana. E si dimentica così che il latino rimase lingua viva per venti secoli e che, lungo quell'arco immane di vicende storiche, vennero dettati in latino quasi tutti i testi fondamentali della nostra civiltà, i grandi libri che hanno mutato la storia del mondo. Ma sono libri che nessuno sa più leggere, perché nessuno li pone, nella scuola, tra le mani dei giovani. Sembra quasi una nèmesi storica: ma i due testi della letteratura latina che hanno inciso più profondamente sulla civiltà occidentale e che, magari inconsciamente, costituiscono tanta parte di ciò che oggi noi siamo, sono due testi dell'età bronzea, due libri «scritti male»: il Corpus iuris e la Vulgata. E più tardi i libri chiave furono la Summa di S. Tommaso e l'Utopia di More, il De iure di Grozio e {'Etnica di Spinoza, e tanti e tanti altri, in cui l'Occidente espresse i suoi più alti e nuovi pensieri, usando il latino non come frigido pretesto di eleganze letterarie, ma come lingua comune agli uomini di cultura di tutto il mondo. Sia dunque la nostra scuola posta in grado al più presto di consentire questo ricupero integrale di due millenni di civiltà, oppure consegni anche il latino aj pochi, benemeriti cultori delle lingue morte per sempre, e lasci il campo alle nuove discipline, che rampollano da ogni parte nel mondo moderno. Si studi finalmente il latino eon metodi moderni, magari coi magnetofoni c i dischi, imparando non ad applicare regolette astratte, ma a parlare c 'a'' péniare latinamente. Se non si riesce a condurre i giovani ad una lettura corrente, tanto vale smettere. Perché l'assurdo non è tradurre Mao nella lingua di Roma, bensì tradurre faticosamente poche righe d'un testo purchessia e credere che quello squallido esercizio possa servire a qualcosa. Luigi Firpo

Persone citate: Grozio, Machiavelli, Manzoni, Mao, Spinoza, Tacito, Visalberghi

Luoghi citati: Apuleio, Italia, Roma