Nei territori arabi occupati da Israele

Nei territori arabi occupati da Israele Un milione di uomini dull'uvvenire incerto Nei territori arabi occupati da Israele (Dal nostro inviato speciale) Gerusalemme, maggio. Il 15 maggio, ventesimo anniversario della nascita d'Israele, è fallito lo sciopero generale di protesta « contro il furto della Palestina compiuto dai sionisti », che i resistenti arabi' avevano proclamato in Cisgiordania ed a Gaza: gli appelli del Cairo e di Amman, i manifesti clandestini, la propaganda orale non hanno trascinato una popolazione scettica o timorosa. Ma l'astensione dalla protesta non significa che nei territori occupati siano facili, e tanto meno idillici, i rapporti tra le autorità israeliane ed un milione di arabi. « L'occupazione ha sempre qualcosa di negativo, di odioso », ammette il comando'militare; ed anche i «collaborazionisti » dichiarano al giornalista straniero, presenti ufficiali israeliani, di « sentirsi arabi senza alcuna tenerezza per Israele ». Ogni giorno, sui vecchi e sui nuovi confini, si spara e si muore ancora. Duelli d'artiglieria e di armi leggere sono quasi quotidiani lungo le rive del Giordano. I kibbutz dell'alta Galilea continuano ad essere attaccati; incursioni di sabotatori si ripetono senza sosta presso il Mar Morto ed il Neghev, pattuglie di soldati e di lavoratori civili saltano sulle mine. Due volte si sono scoperte delle bombe in cinema di Gerusalemme e Tel Aviv. Tuttavia il terrorismo, sia pure' grave, e pericoloso per la tragica catena degli attentati e delle rappresaglie, non è la maggior preoccupazione dei vincitori. I responsabili israeliani non credono che i nazionalisti riusciranno ad organizzare la guerriglia nei territori occupati; e nell'intervista di Jeune Afrique al capo dell'Al-Fath, il più attivo dei movimenti di resistenza (il giornale è venduto nelle edicole di Gerusalemme), si riconosce amaramente che il popolo palestinese ha la tendenza a sperare in uomini « che lo liberino senza fargli correre dei rischi ». Il « Che Guevara musulmano » vorrebbe fare della Palestina una seconda Algeria e distruggere « lo Stato sionista, razzista e colonialista » con una lotta popolare armata, insieme patriottica e rivoluzionaria; ma in Cisgiordania non ci sono le condizioni obiettive, né si trovano i combattenti per la grande rivolta. Il terrorismo rimarrà, secondo le previsioni di oggi, un fatto limitato e sostanzialmente straniero, organizzato oltre confine, che gli israeliani possono reprimere senza difficoltà. Tuttavia mantenere l'ordine non basta a risolvere i problemi, tanto più complessi, dei cinque territori occupati. E' necessario distinguerli. Gerusalemme araba è stata annessa alla capitale, con un decreto unilaterale ed irrevocabile, ed i sessantamila arabi hanno ricevuto la «cittadinanza israeliana. Le colline di Golan tolte alla Siria, « linea Sigfrido che minacciava la Galilea », dove restano appena poche migliaia di drusi amici, sono solo una questione di sicurezza militare: Israele non chiede se non rettifiche strategiche della frontiera e garanzie. Il Sinai, deserto e vuoto, è soprattutto un pegno provvisorio. Ma Gaza e la Cisgiordania pongono gravi problemi politici, umani, economici. Nasser aveva fattp della « enclave » di Gaza; presa dall'Egitto nella guerra del 1948, un enorme campo di concentramento per profughi palestinesi, la grande base delle organizzazioni revansciste o terroristiche,. una polveriera. Prigionieri su una terra poverissima',' circa quàttròccntornila rifugiati vivevano dei sussidi dell'Onu e di propaganda, senza possibilità di lavoro e senza diritto all'espatrio. Ora gli israeliani sollecitano qualche attività economica e favoriscono l'emigrazione; ma l'esodo modesto e difficile non basta a mutare le condizioni penose di 350 mila esseri umani, educati all'odio, carichi di miseria e di rancore. Per ora l'obbiettivo degli israeliani è di mantenere l'ordine (ci riescono senza gravi misure di rigore) ed avviare un lentissimo dialogo; solo la pace ed un grande sforzo collettivo potrebbero riparare la tragedia di Gaza. Ben più serena, al confronto, è la condizione dei seicentomila arabi in Cisgiordania. Fuori delle zone militari lungo il confine, che per ora è una linea di tregua e non una frontiera, la vita scorre normale, abbastanza distesa. Ho viaggiato a lungo, da solo, in ogni ora del giorno, fra Gerusalemme ed il Giordano; e senza avere la presuntuosa illusione che il visitatore straniero riesca a cogliere tutta la verità sul comportamento di un esercito occupante, posso testimoniare che la presenza israeliana è molto discreta e l'apparato di polizia né evidente, né intimidatorio. I dati ufficiali confermano l'impressione visiva. Le forze armate israeliane, anche per alleviare il peso della mobilitazione, riducono le guarnigioni e contano più sulla rapidità di intervento che sul numero. I funzionari israeliani nella gestione civile della zona sono appena 206; tutta l'amministrazione, sotto il controllo politico delle autorità militari, è affidata ancora ad ottomila funzionari giordani, impiegati e maestri, giudici e poliziotti. Erano novemila: mille hanno preferito rifugiarsi ad Amman, da re Hussein. La percentuale degli irriducibili — quantunque non lieve — dimostra che la maggioranza è disposta a lavorare con gli occupanti, pur senza entusiasmo e con molte riserve. La vita quotidiana degli arabi si svolge autonoma, secondo la leg¬ ge locale, sotto i vecchi sindaci e dignitari; ma ci sono differenze tra le varie provincie. Il Nord, specie attorno a Nablus, è inquieto, e la città di Ramallah è stata punita da Dayan con una specie di blocco per dimostrazioni ostili; il Sud è più quieto. Ad Hebron, la città santa dove sepolto Abramo, la coesistenza è pacifica malgrado un'eredità di rancori per non lontani massacri di ebrei; e Betlemme, con il suo forte numero di docili cristiani, è quasi un esempio di stretta collaborazione. In un plebiscito solo una minoranza esigua, forse insignificante, di arabi nei territori occupati accetterebbe l'annessione ad Israele; ma probabilmente la maggioranza non vorrebbe il ritorno alle condizioni del maggio scorso. La guerra ha infranto una realtà politica che aveva in sé molto di artificioso e di provvisorio: ha allontanato l'Egitto'da Gaza ed ha spezzato la unità fittizia -della Giordania. Può darsi che la provincia occidentale ritorni a re Hussein; però l'ipotesi di uno Stato palestinese autonomo, con garanzie internazionali, legato a Gerusalemme e ad Amman, incomincia ad attrarre un numero non piccolo di palestinesi musulmani e cristiani: se fallissero gli attuali tentativi di pace dell'Onu, potrebbe diventare una realistica via d'uscita. Paradossalmente, la guerra ha rotto anche l'isolamento di Israele dai vicini paesi arabi; se la frattura politica rimane insanata, le frontiere non sono più muraglie invalicabili. Fra le due sponde del Giordano, tenute da eserciti nemici, si svolge un traffico abbastanza intenso di merci ed anche di persone: i palestinesi vendono, alla Giordania i loro prodotti orticoli e persino merci israeliane, gli arabi di Cisgiordania si servono dei porti « sionisti », linee più o meno regolari di autobus funzionano fra Gaza, Hebron ed Amman; e migliaia di profughi partono ogni mese, ma altri rimpatriano. Sul futuro incerto si può fare un'unica previsione: e fuori della realtà il ritorno allo statu quo anteriore alla « guerra dei sei giorni ». Carlo Casalegno Indicate in grigio le regioni arabe occupate dagli israeliani dopo la guerra-lampo del giugno scorso

Persone citate: Carlo Casalegno, Dayan, Fath, Golan, Guevara, Nasser