I tempi del congiuntivo

I tempi del congiuntivo DIFESA DELLA LINGUA I tempi del congiuntivo Ora che il latino è in ribasso, chi pensa più alla «consecutio temporum »? Così si sentono, a strazio delle orecchie, frasi come «Speravo che tu venga» Chi si dà ancora pensiero dell'uso retto dei tempi nelle proposizioni subordinate: in altre parole, della consecutio temporum? Infatti il latino, da cui veniva quello spauracchio, è in semidisgrazia e per conseguenza è meno sentita e coltivata l'arte del periodo. Eppure anche a voler coordinare al massimo e subordinare al minimo, come oggi piace fare, è impossibile evitare quello scoglio, sempre che si leghino insieme due proposizioni. « Dice che le piacerebbe uscire », o « che le sarebbe piaciuto »? C'è la differenza di un'unghia, ma c'è: la seconda forma, col condizionale passato, sa di disinganno, indica che la cosa sperata non ha avuto effetto. Le difficoltà sorgono specialmente circa l'uso dei tempi nelle subordinate di modo congiuntivo; e questo perché il congiuntivo ha quattro tempi soltanto e manca del futuro. Inoltre, col congiuntivo, le stonature sbranano l'orecchio (« spero che tu venissi », «speravo che tu venga»). A cogliere il giusto rapporto di dipendenza giova stabilire bene qual è il tempo del verbo reggente, e se l'azione che si vuole esprimere col tempo della subordinata è contemporanea o anteriore o posteriore rispetto al verbo della reggente. La contemporaneità si esprime, nel verbo della subordinata, col presente o l'imper¬ fetto del congiuntivo (secondo che il verbo reggente è presente o futuro, oppure passato); l'anteriorità, col passato o il trapassato del congiuntivo (sempre osservando la distinzione di cui sopra); la posteriorità, col presente del congiuntivo o col passato del condizionale (idem), ai quali si può anche sostituire il presente o l'imperfetto congiuntivo della coniugazione perifrastica, formata cioè con una frase di senso futuro e il congiuntivo di Essere. Insomma, per valerci dello specchietto del Panzini: « Dubito, dubiterò che tu venga (contemporaneità), che sia venuto (anteriorità), che sia per venire (posteriorità) », e « Dubitavo, dubitai, avevo dubitato che tu venissi (contemporaneità), che tu fossi venuto (anteriorità), che tu fossi per venire (posteriorità) ». Col quale specchietto si evitano gli errori massicci; al resto provvede Vaurium judicium e più ancora la pratica dei grandi scrittori « periodici ». * Tra le formole di cortesia — quelle poche che ancora s'intercettano nella spintonante vita d'oggi — il « pardon » (o pardon, secondo la grafia italianizzante che anche si ritrova in menù, scritto e pronunciato all'italiana) ha un poco perduto della sua straordinaria fortuna: non tanto, crediamo, perché sentito finalmente come barbaro. inutile e improprio (in quanto Perdono è la remissione di un fallo commesso con dolo, e nell'uso sociale basta e avanza l'italiano Scusi), quanto perché il francesismo, cosi in generale, declina, a vantaggio dell'anglicismo. Per converso la forinola « per cortesia » prevale in larga misura su « per piacere », « per favore » e sim., anche, o soprattutto, nel linguaggio degli umili. E fa un curioso effetto su un tessuto verbale per solito malamente rabberciato cogliere quella parola così antica e augusta. La dicono, anche ab irato, bigliettinai di tram e filobus per intimare movimenti ai malcapitati passeggeri. Ora quel vocabolo, significante « abito e disposizione di gentilezza benigna, utile e piacevole ad altri », è troppo forte, anche etimologicamente (da Corte), per rimuovere i piccoli fastidi causati dal prossimo nostro, cui è sufficiente raccomandarsi con un più modesto e occasionale « per favore ». Leo Pestelli

Persone citate: Leo Pestelli, Panzini