De Gaulle e Israele

De Gaulle e Israele Perché le dichiarazioni antisemite del Generale? De Gaulle e Israele Che la scorsa primavera De Gaulle abbia rovesciato le alleanze della Francia nel Me dio Oriente, rompendo il tradizionale legame con Israele « notre ami, notre allié », non è un fatto che colpisca gl ebrei più degli altri francesi: sostiene Raymond Aron. Gli ebrei possono essere dispiaciuti per lo stile « gratuitamente aggressivo » del cambiamento di fronte, possono pensare (come tanti non ebrei) che rechi alla Francia ed all'Occidente più danni che vantaggi; non hanno il diritto di sdegnarsi di una scelta compiuta secondo i principi della ragion di Stato, Le alleanze tra quei « mostri freddi » che sono le nazioni sovrane non durano immutabili ed eterne. Gli stretti rapporti tra Parigi e Gerusalemme, conclusi in funzione antiaraba quando la Francia era impegnata nella guerra d'Algeria, dovevano allentarsi dopo la fine del conflitto: Aron l'aveva previsto già nel 1956, deplorando che Israele si compromettesse con la spedizione franco-inglese di Suez. Ma nella conferenza-stampa del 28 novembre 1967, De Gaulle non parlò soltanto di Israele: in una digressione non necessaria per esprimere il suo giudizio sulla crisi del Medio Oriente, egli mise in dubbio le basi stesse dello Stato israeliano e trasse in causa il popolo ebraico nella sua totalità, per il passato e per il presente, denunciandone oscure colpe storiche. Occorre rileggere quelle frasi « cariche di risonanza ». Dopo l'impianto delle comunità ebraiche in Palestina, « in condizioni più o meno giustificabili », alcuni temevano che « gli ebrei, sin allora dispersi, ma rimasti ciò ch'erano stati sempre, cioè un popolo «"élite, sicuro di se stesso ..e dominatore, fossero indotti, una volta riuniti nella terra della loro antica grandezza, a mutare in ardente ambizione di conquista Vemozionante augurio ("L'anno prossimo a Gerusalemme") che ripetevano da diciannove secoli ». A favore degli ebrei si era tuttavia accumulato, particolarmente nella cristianità, un «considerevole capitale di interesse, ed anche di simpatia »: e ciò malgrado « il flusso ora ascendente, ora calante delle ostilità ch'essi provocavano, o più esattamente suscitavano, in taluni paesi ed in talune epoche ». Quelle parole, De Gaulle finora non le ha rinnegate. Ha assicurato Ben Gurion di sentimenti amichevoli verso Israele; ha spiegato che la definizione di « popolo d'elite, sicuro di se stesso e dominatore » è un riconoscimento delle virtù clie hanno consentito agli ebrei di sopravvivere « in condizioni inaudite ». Ma nessuna interpretazione ufficiale ne ha smentito il significato obbiettivamente antisemita (le « ostilità ch'essi provocavano, o più esattamente suscitavano»!); e dai ranghi degli scrittori gollisti non si è levato né un Mauriac, né un Malraux per rispondere al capo dello Stato In tanto silenzio, dopo lunghe esitazioni, Raymond Aron « si è deciso, o piuttosto rassegnato » a rispondere alla requisitoria del presidente, con un pamphlet di 40 pagine: « Il tempo del sospetto» (Seguono, a comporre il libro De Gaulle, Israel et les Juifs edito da Plon, sedici articoli sulla guerra di giugno e due vecchi saggi, coraggiosi ed emozionanti, sulla posizione di un ebreo che si sente francese, occidentale, « assimilato », di fronte ai problemi del sionismo e dell'antisemitismo). Forse questo rapido pamphlet, lucido e dolente, cartesiano ed appassionato, è il capolavoro di Raymond Aron, economista, sociologo, scrittore politico di grande prestigio. Vi si possono distinguere due parti. La prima è un esame del nuovo atteggiamento gollista verso Israele, giudicato sotto il puro aspetto della politica francese di potenza: e conduce a conclusioni prudenti, ma severe. De Gaulle ha sacrificato gli israeliani — e la verità — all'alleanza con gli arabi, per ristabilire l'antico prestigio della Francia nel Levante ed opporsi all'egemonia americana: ha solo favorito la presenza russa nel Mediterraneo ed ottenuto per la Francia un po' di petrolio ma non una posizione di forza: « Per 10 slesso Nasser, un generale De sjGaulle persona grata a Washington ed a Gerusalemme conterebbe più di un emulo del maresciallo Tito ». De Gaulle aveva proposto una mediazione dei quattro Grandi: i sovietici hanno preferito 11 dialogo diretto con l'America. Aveva intimato a Israele di non cominciare la guerra, offrendo la propria garanzia; gli israeliani hanno preferito difendersi da soli, sapendo che in loro soccorso il generale « non poteva mandare nulla di più che una conferenzastampa ». Ma la parte più viva, appassionante del saggio, è la risposta ai giudizi del generale sul «popolo» ebraico, definito con poche parole in cui si concentrano vieti stereotipi nazionali e pericolosi pregiudizi razziali, accusato di contenere in sé i germi di un imperialismo israeliano. Non si può pensare che De Gaulle riprendesse il linguaggio dei Maurras e dei Drumont, offendesse la verità e l'intelligenza, senza un motivo: perché lo ha fatto? Il generale non è antisemita. Non si propone certo discriminazioni o persecuzioni contro gli ebrei francesi. Eppure, primo capo di Stato europeo dopo la guerra, ha ripreso ufficialmente i tradizionali motivi dell'antisemitismo; ed ha autorizzato gli antisemiti, sempre presenti in Francia ma sin'allora silenziosi, a « usare il linguaggio di prima del grande massacro ». « In piena coscienza, volontariamente, ha aperto un nuovo periodo » nella storia degli ebrei: «.Tutto rico¬ mincia — prevede Aron. — Non la persecuzione; solo la malevolenza. Non il tempo del disprezzo; però il tempo del sospetto ». Raymond Aron suggerisce delle ipotesi senza dare una risposta. Forse De Gaulle, in novembre, ha voluto punire gli israeliani per la loro disobbedienza di giugno e gli ebrei francesi per la loro solidarietà con Israele. Forse ha cercato di rafforzare la sua posizione presso gli arabi, o di sfidare l'America. Oppure ha agito a somiglianza del Re Sole, che non tollerava i protestanti; o, semplicemente, ha ceduto al suo esasperato nazionalismo. Mi sembra che si possa aggiungere anche un'altra spiegazione: un « ritorno » del generale, di estrazione cattolica e monarchica, alla passione maurrassiana della sua giovinezza. Qualunque sia la verità, quelle parole rischiano di restare come un triste marchio sull'ultimo gollismo; e di lasciare, nel paese che non ha interamente dimenticato il « caso Dreyfus » (come dimostrano recenti sondaggi d'opinione), una inquietante eredità. Carlo Casa legno