L'agricoltura italiana ed il Mercato comune di Giuseppe Medici

L'agricoltura italiana ed il Mercato comune La crisi dei latte, del burro, della carne L'agricoltura italiana ed il Mercato comune La politica agraria comunitaria, essendo sostanzialmente protezionistica, se non autarchica, comincia a dare i suoi frutti. Da un lato tende ad addormentare su posizioni superate i settori della produzione cresciuta all'ombra di alte barriere protettive e, quindi, attarda il rinnovamento degli impianti e delle tecniche; dall'altro, dove le condizioni di ambiente sono più favorevoli, spinge la produzione molto al di là di quella che sarebbe stata in un mercato sensibile ai prezzi ìnternaaionali. Così, la produzione di alcune coltivazioni aumenta in misura molto maggiore della domanda interna e, quindi, per sostenere i prezzi, si è costretti a svendere le eccedenze sul mercato internazionale, facendo pagare ai contribuenti centinaia di miliardi di lire di imposte. Si stima che, nell'ambito del Mercato comune, vi siano 1.500.000 quintali di burro invenduto; e mentre il prezzo pagato al produttore supera le 1.000 lire al chilogrammo, il prezzo al quale si vende sul mercato internazionale talvolta si aggira sulle 250 lire. Si aggiunga che l'eccezionale raccolto di cereali, che nella scorsa annata ha toccato i 680 milioni di quintali, ottenuti per circa la metà nella sola Francia, conferma che questo tipo di politica agraria ostacola la trasformazione delle strutture che oggi le autorità comunitarie indicano come un mezzo fondamentale per risolvere i problemi da noi stessi creati. Le debolezze della politica agraria comunitaria appaiono più chiare quando si ricordi che, in tempi recenti, la tendenza protezionistica ha portato ad un notevole aumento del prezzo dei cereali foraggeri, che condiziona gli allevamenti animali. Il che è gravissimo per l'Italia che, in regime di libero commercio delle granaglie, ha compiuto notevoli progressi nella produzione di pollame, di uova e di carne di maiale, proprio perché si poteva approvvigionare di imponenti quantità di granturco e cereali minori a prezzi internazionali. Si aggiunga che, 10 scorso anno, grosso modo abbiamo importato 350 mila quintali di burro, 700 mila quintali di formaggio, 5 milioni di quintali di carne bovina, 2 mihoni di quintali di latte in polvere. La nostra produzione zootecnica è largamente insufficiente rispetto alle esigenze del nostro crescente consumo. Se, quindi, noi non riusciamo a soddisfare la domanda interna di burro e di formaggio, nonostante che t prezzi del latte siano stati superiori di almeno 10 lire al litro ai prezzi della Francia, segno è che, oltre ai fatti dipendenti dall'uomo e dalle sue capacità tecniche ed organizzative, vi sono realtà fisiche sulle quali poco si può fare per modificarle: i nostri allevamenti si praticano in condizioni estremamente difficili per produrre a costi competitivi 11 latte e la carne bovina. Questi richiami dimostrano che, in generale, il nostro paese non ha vocazione zootecnica: lo conferma chiaramente il fatto che la metà della nostra produzione lorda vendibile è fornita dagli ortaggi e dagli alberi da frutta (compresi vite ed olivo) e che tutta la produzione animale vi concorre soltanto con il 350zb, mentre in altri paesi, come la Germania e l'Olanda, supera il 750/0. L'avvenire della nostra agricoltura non dipende, dunque, prevalentemente dagli sviluppi degli allevamenti, come avviene, invece, per altri paesi dell'Europa centrale e occidentale. Ciò non toghe che le aziende dell'Italia settentrionale, e specialmente della pianura lombardo-piemontese e in parte di quella emiliana, trovino nel latte uno dei pilastri del loro bilancio; il che spiega l'intensità del disagio. * * Che fare, dunque? Mi sembra che se una politica programmata si deve attuare, questa, in Italia, debba proprio cominciare dal settore zootecnico e, in particolare, da quello lattiero-caseario. Perciò qualcuno si è domandato: come mai, nel gran parlare di programmi da parte di programmatori, non si è ancora detto, con chiarezza, che cosa si intende fare nel settore zootecnico, il più debole dell'agricoltura italiana? Certo, al riguardo, il nostro programma economico nazionale per il 1966-1970 è elusivo: «Si dovrà quindi agire in maniera il più possibile determinante per dar luogo, avendo riguardo alle prospettive aperte allo sviluppo degli allevamenti dalle diverse caratteristiche di zone e ambienti, a razionali aziende di carattere zootecnico... ». Perciò, se mi si domandasse: « Ma, in concreto, come dovrebbe essere formulato il programma?», risponderei: gli allevamenti delle vacche da latte in Italia — come avviene in gran parte del mondo — sono convenienti e durevoli soltanto se fatti in aziende familiari. Persino negli Stati Uniti d'America la zona del latte (« dairy belt ») è dominata da aziende nelle quali il numero medio di animali allevati dalla famiglia dell'agricoltore si aggira intorno a 25. La vacca è delicata e sensibile, dev'essere trattata con mano sapiente e leggera. La produzione di latte che essa cede dipende anche dall'arte dell'allevatore e dall'amore che egli porta nella sua paziente fatica. Cosi, nei paesi anglosassoni e scandinavi, dove profondo e generale è l'amore per gli animali, si ottengono, a parità di condizioni, i risultati migliori. Ecco perché insisterei su un programma di allevamenti familiari; tanto più che quelli di tipo industriale, comprese le stalle sociali, penso siano condannati al fallimento; e ciò anche se, ad esempio, nella piana di Catania, alle porte di Roma o nei pressi di Modena vi sono aziende mirabili, ma irripetibili. Non credo sarà possibile attuare con successo il Mercato comune agricolo se non si porrà riparo alla disastrosa politica dei cereali minori imposta dalla Francia e se non si darà respiro alla zootecnia italiana. Avendo di fronte cinque anni di tempo, durante i quali si dovrebbe condurre la stessa politica, stimo che, nelle contrade d'Italia dove vi sono condizioni ambientali favorevoli per gli allevamenti bovini e, in particolare, per la produzione del latte, si possa giungere a dare una ragionevole retribuzione al lavoro e al capitale impiegati nelle aziende zootecniche; ma occorre fornire loro i mezzi necessari in misura adeguata. Il Fondo comunitario di orientamento e di garanzia (Feoga) è stato creato anche a questo scopo. Giuseppe Medici