Il cinema con Carl Dreyer la poesia vera e pensiero

Il cinema con Carl Dreyer la poesia vera e pensiero E MORTO IL GRANDE REGISTA DANESE Il cinema con Carl Dreyer la poesia vera e pensiero Il danese Cari Theodor Dreyer resterà durabilmente nella storia del cinema come uno dei registi più « puri », uno dei pochi dai quali il cinematografo si riconosce come arte. Il disegno che da molto tempo andava accarezzando (all'unisono con un altro « grande *, Charlie Chaplin) è che proprio in questi ultimi mesi forse si accingeva ad attuare, quello di filmare una Vita di Gesù, non può sembrare superbo, chi ri¬ pensi all'austerità della sua tematica tipicamente protestante, aperta ai problemi ultimi dell'uomo. Come anche hanno fatto e fanno oggi Bergman e Bresson, e per vie meno affini Pasolini e Godard, così Dreyer nobilitò lo spettacolo cinematografico facendone un mezzo a scrutare la serietà della vita che per lui, discepolo di Kierkegaard, si assommava in un senso di angoscia e solitudine ontologica, riscattabile, non già con la scienza né, con l'odierna pratica del cristianesimo, ma con un ìntimo ricorso al misticismo, alla follia della Croce. Qui è curioso notare che questo regista squisitamente anticommerciale, anzi questo spiritualista del cinema cui l'estetica non bastava (sono parole sue: «Non occorre che un film sia perfetto né troppo ben costruito: occorre soltanto che vi si senta battere il cuore dell'autore ìi), avesse lungamente militato nell'esercizio cinematografico danese, partecipando, da esperto uomo di affari, alle sue vicende economiche. Non è molto che il pubblico italiano ha potuto vedere o rivedere le maggiori opere ' di Dreyer nella « serie » ordinata per la televisione dal critico G.B. Cavallaro. E' quasi superfluo ricordarne i titoli, tanto la cresciuta divulgazione delle cose cinematografiche le ha rese popolari anche fuori dei « cine-club ». Su tutte, quella Passione di Giovanna d'Arco, girata in Francia nel 1928, che resterà probabilmente la prima evocazione suggerita dal nome di lui: una sorta di pantheon del « primo piano » dilatato, del volto umano come sorgente di espressione autosufficiente, al quale le parole, in funzione soprattutto pausativa, restavano subordinate. Sul volto della Falconetti, mirabile interprete-cavia, il processo della Pulzella diventava appunto passione, dibattito tra carne e spiritò. Con la stessa plastica concretezza Dreyer trattò il genere « tenebroso » in Vampyr (1931), rendendo credibile l'incredibile, ossia l'avventura di « un essere predestinato, la cui vita sembra legata da fili invisibili a mondi soprannaturali » (come diceva una delle tante funzionali didascalie). Tornato in Dani marca, dopo una lunga inattività riempita da lavori pub blicistici, diede un altro capolavoro con Dies trae (1943), storia di una « Fedra » danese, che accusata di stregoneria dopo la morte del marito e non difesa dal figliastro amante, inventa la sua colpa e muore sul rogo. L'interesse del film era nel ben sostenuto proposito di farvi confluire i risultati più certi del cinema muto e di quello sonoro, non rinunciando al rigore della Passione, che anzi, passando in quel torvo dramma di stregoneria, dava della stessa una interpretazione razionale, in perfetto accordo con le idee deliranti ma lucide del Seicento. Ancora una lunga pausa meditativa e siamo a Ordet, «Leone d'oro » alla Mostra di Venezia del '55, che ispirato a un dramma del prete danese Kay Munk, affronta il problema della fede, che muove le montagne e rileva i morti. L'anelito religioso, affiorante in tutta l'opera di Dreyer, qui corre allo scoperto; e crescendo la posta ideologica (quella del « miracolo », raramente accettata dal cinema), cresce anche il rigore stilistico; se non che la sapienza compositiva non si avverte, cede, come fu detto, a « una delle più rare armoriie che mai siano state raggiunte sullo schermo ». Ordet, così nitido e insieme così misterioso, è il film di Dreyer più arduo e più alto; quello che, per logica interna, lo doveva indurre a vagheggiare un film su Gesù-uomo. Ma il suo congedo dal pubblico ebbe.un altro'nome, fu Gertrud, anch'esso presentato a Venezia, nel '65. Non pochi, sulle prime, arricciarono il naso: erano passati dieci anni da Ordet, dieci anni riempiti da Bergman e dai tanti santi, santoni e santini della «nouvelle vague-». In effetto un che di nobilmente senile evaporava da quella storia coniugale a fondo vagamente ibseniano; pareva che per la prima volta, in Dreyer, la disciplina dello stile stringesse poca sostanza e per giunta mostrasse l'usura del tempo. Ma a ripensarlo e a rivederlo, quel film offriva su un piatto d'argento la prima dote di un artista, la fedeltà a se stesso. Fedeltà a un mondo penetrato da ciò che fa più nobile l'uomo, pur in mezzo ai tormenti, e saputo rappresentare con immagini asciutte, caste, essenziali. » - Dorè si è espresso, Dreyer. si è espresso così compiutamente, fuor di tutte le mode, e su toni così inconsueti nel cinema quotidiano, che il biografo non sente il pungolo di ricordare il Dreyer « minore » (al quale fra l'altro appartiene un'aspra denuncia del razzismo avanti lettera: Amarsi l'un l'altro, 1921), venuto su dalla gavetta, compilatore di didascalie prima, poi montatore e sceneggiatore, quindi industriale della non sempre florida cinematografia danese. Esordì regista nell'ormai preistorico 1919 con fi presidente, un « melo » giudiziario dei più improbabili, ma già annodato intorno a un problema di coscienza. Si annunciava sin d'allora la concentrazione di Dreyer su quello che più importa, su quello che il cinema, inteso come divertimento, lascia cadere: l'interiorità dell'uomo. In questa direzione, e con l'austera melanconia del nordico, mosse Dreyer e divenne « maestro » del film. Leo Pestelli ti regista Dreyer (Tel.)

Luoghi citati: Dreyer, Francia, Venezia