Nemmeno la forte industria tedesca può chiudersi entro i confini nazionali di Giovanni Giovannini

Nemmeno la forte industria tedesca può chiudersi entro i confini nazionali IL l0 LUGLIO CADRANNO LE BARRIERE DOGANALI DEL MEC Nemmeno la forte industria tedesca può chiudersi entro i confini nazionali In Germania le prossime scadenze non suscitano inquietudine: dopo la stasi del 1967, si delinea ora una netta ripresa -1 responsabili dell'economia pensano invece alla concorrenza americana ed ai futuri sviluppi tecnologici - Per dimensione delle imprese, l'industria tedesca è già la prima in Europa; tuttavia,non si sente "abbastanza grande" su scala mondiale - E' in corso un vasto movimento di intese, concentrazioni e fusioni, favorite anche dai ministri socialisti - Ma, soprattutto nei settori di punta, non pare sufficiente - Nell'elettronica, per esempio, è necessario un accordo "europeo" (Dal nostro inviato speciale) Bonn,, marzo. I politici a Bonn, gli industriali a Colonia, i sindacalisti a Dusseldorf, tutti i tedeschi sono d'accordo: quando fra cento giorni cadranno le ultime dogane all' interno della Comunità Economico Europea ed i sei Paesi adotteranno una tariffa unica verso il resto del mondo, non succederà niente di drammatico. « La Repubblica Federale tedesca ha sempre insistito per l'acceleramento del disarmo doganale, per la rapida creazione di un solo efficiente mercato comune di centottanta milioni di europei, il meno possibile autarchico, il più possibile aperto. Siamo lieti, non preoccupati, di giungere al primo, grande obbiettivo con un anno e mezzo di anticipo sul previsto ». Qualche preoccupazione, forse, i tedeschi l'hanno avuta nel 1967, quando per la prima volta nel dopoguerra il loro prodotto nazionale non è aumentato. Ma oggi le « cicogne della prosperità » sembrano ricomparse; il ministro democristiano delle Finanze Strauss prevede per il 1968 un tre per cento in più, ed il suo collega della Economia, Schiller, parla più ottimisticamente di un quattro per cento. La macchina possente della produzione è stata rimessa in moto con una spinta alle vendite sui mercati stranieri tanto decisa da provocare critiche acerbe oltreconflne: « Per superare la loro recessione — ha scritto l'inglese Spectator — questi irresponsabili tedeschi hanno scatenato una vera e propria guerra delle esportazioni ». « Solo se noi vendiamo agli altri — ha risposto tranquillamente Schiller — possiamo comprare dagli altri: l'interesse è reciproco ». Seconda potenza commerciale, -terza potenza industriale al mondo (in gara con il Giappone), la Germania ha più di qualsiasi altro Paese europeo le carte in regola per affrontare la nuova competizione dentro e fuori del Mec. Ma a più lunga scadenza sono proprio i tedeschi, per la loro maggior « maturità industriale », a porsi gli interrogativi più inquietanti sulla capacità strutturale delle imprese europee a reggere nella batta-' olia mondiale. . J?d. ancora una volta, il giudizio di politici, imprenditori, studiosi, è unanime: « Nemmeno la grande industria tedesca è sufficientemente grande ». Il problema delle dimensioni aziendali è affrontato in questi giorni a tutti i livelli, e per la prima volta senza le circonlocuzioni e le riserve (non solo economiche) d'obbligo fino a ieri. Il momento è di estremo interesse, siamo secondo ogni evidenza ad una terza fase della politica industriale della nuova Germania. Inutile ricordare il primo periodo tra la fine della guerra mondiale e l'inizio di quella coreana, quando gli alleati cercarono di smantellare come fonte ed alimento del nazismo la Verbandswirtschaft, il compenetrarsi di Kartelle orizzontali e Konzerne verticali (cito solo come esempio che ritornerà più tardi, la divisione della I. G. Farben in Bayer, Hochst, Basf). Nella seconda fase, dal '50 in poi, gli occupanti i ccidentali allentano il pugno fino ad aprirlo del tutto; sorge la Ceca che deve permettere la ricostruzione dell'industria tedesca del carbone e dell'acciaio sotto controllo e nel quadro europeo, governa l'economia federale l Erhard, liberista ad oltran- za. «Le imprese facciano quello che vogliono — è la filosofia del " padre del miracolo " — a patto che non venga in nessun modo condizionata o compromessa la libertà della concorrenza ». Per la difesa di questo limite, viene vaiata la Kartellgesetz, si fonda il Bundeskartellamt: la legge e l'organismo che devono impedire la rinascita dei monopoli. A dieci anni esatti di distanza, l'azione dei due strumenti viene giudicata abbastanza efficace (a chi la trovava troppo efficace, il dott. Eberhard Guenther, presidente del Bundeskartellamt, ha sempre ribattuto: « la Kartellgesetz è la nòstra Magna Carta, tanto importante per la libertà economica quanto la costituzione per la democrazia politica»;. Oggi, all'inizio di un nuovo periodo, non troviamo più Kartelle o Konzerne (anche se tra le imprese il grado di Verbandswirtschaft, dì compenetrazione, è' sempre più alto che altrove), siamo sémplicemente davanti ad industrie che hanno raggiunto dimensioni superiori in media alle altre europee. Cito solo tre ordini di dati (1966). Su 87 imprese mondiali che hanno una cifra di affari superiore al miliardo di dollari. 2 sono italiane, 2 francesi, 2 olandesi (più 2 anglolandesi), 2 svizzere, 6 inglesi e ben 12 tedesche (ma 60 americane). Delle cinquecento società più grandi del mondo, 1 è lussemburghese, 3 belghe, 4 olandesi (più 2 anglolandesi), 8 italiane, 23 francesi e ben 30 tedesche (ma 34 giapponesi, 55 inglesi e 300 americane).-Ed infine, nella gra. duatoria mondiale per singole società, una tedesca è prima fra tutte quelle della Comunità Economica Europea (ma è solo al ventiquattresimo posto). « Il primato nei confronti degli altri Paesi del Mec — mi dichiarano gli esponenti della Confindustria a Colonia — non ci entusiasma: dimostra che sul continente siamo tutti troppo piccoli. Sono invece i "ma" nei confronti degli americani o qualche volta degli inglesi o dei giapponesi o, perché dimenticarli, dei sovietici, a renderci profondamente inquieti. A noi non piace porre il problema nei termini alla moda di " sfida americana ", ma qualcosa dobbiamo fare per unire le nostre forze su piano nazionale ed europeo. E qualcosa possiamo fare. « Prenda il caso della chimica. Nella graduatoria mondiale primeggia la du Pont de Nemours americana con una cifra di affari di 3,02 miliardi di dollari all'anno. Le prime imprese tedesche figurano al settimo {Bayer), ottavo (Hochst) e decimo (Basf) posto, con un fatturato, rispettivamente, di 1.58 - 1,31 - 1,01 miliardi di dollari. Faccia la somma: a mettere insieme le tre, si soffierebbe il primo posto al colosso americano; ed insieme, le tre sono già state fino a ieri, nella vecchia /. G. Farben. « E' solo un esempio teorico — sì affrettano a precisare i miei interlocutori — nessuno pensa a risuscitare il vecchio impero monopolistico; certo, però, certe intese tecniche potrebbero essere utili; in ogni caso, in ogni settore, qualcosa bisogna fare ». Qualcosa, in verità, gli imprenditori tedeschi stanno già facendo; non passa giorno senza che si parli (molto cautamente e vagamente) di nuove fusioni, compartecipazioni, intese, e ciò nonostante gli effettivi ostacoli, specie fiscali. Ma nei prossimi mesi la tendenza può trasformarsi in ondata: Schiller, ministro socialista dell'industria, ha annunciato ufficialmente in questi giorni nuove leggi non solo per rimuovere gli ostacoli, ma per facilitare e promuovere le concentrazioni di imprese (non i monopoli che continueranno ad essere proibiti). Non è solo un ministro, è l'intera « grande coalizione » socialista e democristiana ad aprire una terza fase nella politica' industriale tedesca del dopoguerra. Cito il ministro della Ricerca scientifica, Gerhard Stoltenberg: « Le dimensioni e le possibilità finanziarie delle imprese operanti nel settore aeronautico e spaziale, nonostante i soddisfacenti progressi tecnici, non corrispondono ancora alle esigenze del futuro ».' Non sono solo parole: nel suo settore, Stoltenberg ha unificato gli organismi di ricerca, preme perché le industrie seguano nello stesso senso. In questo senso merita una telegrafica illustrazione la partita a quattro in corso tra le ditte aeronautiche. La Vereinigten Flugtechhischen Werken di Brema e la Boelkow stanno faticosamente ricercando un'intesa fra loro, ma al tempo stesso la prima tratta allo stesso scopo con un'altra azienda settentrionale, la Flugzeugbau, e la seconda con un'altra meridionale, la Messerschmitt. Quest'ultimo matrimonio — la cosa merita di essere notata come esempio di intervento pubblico regionale, oltre che federale — appare il più probabile ed imminente perché il governo bavarese ha promesso un sostanzioso « dono di nozze ». Un analogo e non trascurabile regalo (settantacinque miliardi di lire), il go¬ verno federale l'ha già fatto in questi giorni all'altro settore - chiave dell'elettronica, dove la concentrazione nazionale è già rilevante (due aziende controllano da sole la quasi totalità del mercato) ma dove, ciò nonostante, il distacco dagli Stati Uniti sul terreno decisivo dei computers minaccia di diventare incolmabile. Qui, nemmeno la potente Germania può sperare di fare da sé: « Nell'elettronica — ha detto la settimana scorsa a Berlino Peter Siemens, presidente della Federazione industriale del ramo — non c'è altra speranza di salvezza che la concentrazione, la costituzione di grandi imprese europee ». La Siemens è un'azienda che si è permessa il lusso recentemente di battere i colossi americani aggiudicandosi in Argentina la costruzione di un impianto nucleare (terzo settore-chiave del futuro). Ricordo questo successo tedesco per mettere in evidenza tutto il valore dell'appello del signor Siemens per un'impostazione europea della risposta alla sfida del nostro tempo (un appello logico economicamente, politicamente rassicurante: solo la nuova via europea ci rassicura contro il ritorno a vecchie ed inquietanti politiche di nazionalismo industriale). Giovanni Giovannini