Il Carso, cinquant'anni dopo di Francesco Rosso

Il Carso, cinquant'anni dopo DOVE FU COMBATTUTA E VINTA LA PRIMA GUERRA MONDIALE Il Carso, cinquant'anni dopo Dal Monte Nero all'Adriatico, si ritrovano ancora i segni della lotta; e ossari, cippi, monumenti infiorati, che onorano i morti - Ma niente dà la misura esatta della tragedia immane che si consumò su quelle colline, per tre anni e mezzo - Pochi superstiti, come Guido Slataper, possono ormai rievocarne tutto l'orrore - Il Podgora è alto 240 metri: per arrivare in cima ci vollero migliaia di morti ed eroismi disperati - Gorizia è una piccola città bianca: costò quindici mesi di battaglie, fiumi di sangue, attacchi eseguiti passando sui cadaveri dei compagni - Poi il massacro ricominciò più oltre, verso la Bainsizza (Dal nostro inviato speciale) Dal Podgora, marzo. I campi di battaglia oggi, cinquantanni dopo. I segni ci sono ancora; tracce di camminamenti, qualche trincea scavata nella dura pietra del Carso, caverne per i comandi. Un piccolo museo all'aperto, che non dice più quale inferno di morte siano stati per tre anni e mezzo (24 maggio 1915 - 4 novembre 1918) questi luoghi ora sereni sotto il cielo quasi primaverile. Ci sono i sacrari, gli ossari, i monumenti, i cippi, con la loro ingenua rettorica epigrafica, a infiorare tutto il Carso, dal Monte Nero all'Adriatico. Sono sufficienti a ricordarci, non con l'inerte memoria della storia imparata a scuola, ma con la vivezza della tragedia ancora attuale, l'olocausto immane della «grande guerra»? Cinquantanni, la vita vera e piena di un uomo, e dentro a questa grande parentesi, altre guerre d'Africa, di Spagna, il secondo conflitto mondiale, la lotta partigiana. Ma quella guerra, che doveva essere l'ultima del nostro risorgimento nazionale, ha ancora qualcosa da dirci, da insegnarci. C'è chi li ricorda quei settecentomila morti, il fiore della giovinezza d'Italia, e torna periodicamente a infiorare gli ossari, i cippi, i monumenti; ma sono pochi i rimasti a conservare il culto dei loro cari ingoiati dal fuoco che scuoteva le doline di Doberdò, dell'Hermada, del San Michele, o sventrava i fianchi del Monte Nero, del Sabotino, del Monte Santo, del fosco Caporetto; oppure più a nord, verso le alte cime della Carnia e delle Dolomiti, cimitero di alpini. Ricordiamoli tutti, oggi, mentre stanno per incominciare le celebrazioni per il cinquantenario della Vittoria, ricordiamoli com'erano, uomini maturi e ragazzi ventènni, affondati nell'inferno del Carso, tra le nevi dei monti impervi, consci di dover morire. E non vergogniamoci se ci spunterà qualche lacrima. Non mi vergogno della commozione provata leggendo questa lettera: « Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole; sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa, ma orrenda... Fra cinque ore, qui sarà l'inferno. Io non ho paura, so dimostrarmi calmo e sorridente. O genitori, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratellini di me, morto a vent'anni per la patria. Parlate loro di me, sforzatevi di risvegliare loro il ricordo di me. Che, è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi... ». Era mezzanotte del 18 giugno 1917 quando il sottotenente degli alpini Aldo Ferrerò, studente della facoltà di Lettere di Torino, scriveva questa lettera; alle dieci del mattino successivo cadeva sull'Ortigara, in mezzo ai suoi alpini. Ed ora che sono qui, sul Podgora, dinanzi a Gorizia bianca e luminosa nella piana verde, incoronata dai tragici colli, mi si affollano ì ricordi della prima infanzia, l'ansia delle madri che avevano i figli al fronte, sul Carso, ed i telegrammi, portati dai carabinieri, che giungevano sempre più frequenti, a dire che il soldato, il caporale, il sergente, il sottotenente tale, era « morto da valoroso compiendo il suo dovere verso la patria ». L'anticamera dell'inferno che doveva durare tre anni e mezzo, è questa bassa collina, un breve sperone a strapiombo sull'Isonzo, da cui si domina tutta la piana di Gorizia. Sono 240 metri da scalare, ed oggi sembra ridicolo che sia stato impiegato un anno e più, e siano occorsi tanti morti per espugnare il basso colle. Le « radiose giornate » di maggio, il verboso dannunzianesimo che esaltava « le belle mitragliatrici », Marìnetti che delirava: « guerra, sola igiene del mondo », si spensero sui fianchi di questa collinetta di 240 metri sotto le raffiche delle mitragliatrici austriache, rintanate nelle caverne. Un poco più in basso,, sul versante occidentale, c'è la tomba di Scipio Slataper, medaglia d'argento, il giovane triestino autore di II mio Carso, fuggito da Trieste per non combattere con gli austriaci e arruolatosi volontario. Accanto al suo nome, due piccole lapidi: Scipio Secondo Slataper, nato a Roma 23 giorni dopo che suo padre era caduto, eppoi disperso in Russia nel 1943. Medaglia d'oro. Ed un'altra lapide: Giuliano Slataper, caduto in Russia, a Nikolaievka, il 26 gennaio 1943. Medaglia d'oro. Era figlio di Guido Slataper, il conquistatore del Monte Saniol; medaglia d'oro. « Manca soltanto la mia epigrafe su questa stele » dice Guido Slataper, il solo sopravvissuto dell'eroica famiglia. Mi racconta come si svolse la tragica azione di quel 3 gennaio 1915. « Avevano chiesto tre ufficiali volontari che guidassero altrettante pattuglie di tre soldati ciascuna per far saltare i reticolati ed aprire la via alla vetta del Podgora. Andammo Scipio, il ten. Martello, credo piemontese, ed io. Arrivammo dove il sentiero formava un bivio, e ci dividemmo. Salutai Scipio e Martello dicendogli: ci rivedremo sotto. Scipio andò a sinistra, Martello al centro, io a destra. Le'mitragliatrici austriache ci presero d'infilata; ferito ad ima gamba, rotolai lungo la scarpata, e mi salvai. Scipio rimase fulminato da un proiettile alla gola. Lo raccolse il tenente Rossini, di Novara. Seppi che era morto, quindici giorni dopo, leggendo il giornale, mentre mi trasportavano ih ospedale a Roma ». Poi il Podgora fu conquistato, e dalla vetta i fanti potevano finalmente sognare la presa di Gorizia massacrata dai bombardamenti. Dalla cima, Vittorio Locchi. poeta toscano, tesseva i versi spogli della sua Sagra di Santa Gorizia. Egli cantò, prima di affondare nell'Adriatico per un siluro nemico: « La città è apparsa, — apparsa a tutti nel-piano, — dalle vette raggiunte: — e tende le braccia, — e chiama — lì, prossima, — tutta rivelata, — nuda e pura nel sole — di Ferragosto... ». Incontro in un orto, mentre coglie insalata, un goriziano reduce del Podgora. « Vedevo la mia casa dalla trincea da dove sparavo con le bombarde ». E' Giuseppe Azzano, classe 1892, bombardiere, sopravvissuto all'inferno, ridotto a una larva di mali. Mi racconta come fu presa Gorizia, una beffa giocata con freddo coraggio da Alfredo Baruzzi, medaglia d'oro per quell'azione. « La mattina dell'8 agosto 1916, poco prima delle sei, ho visto una pattuglia italiana che si avvicinava al sottopassaggio della ferrovia. Io avevo proprio l'ordine di tenere sotto il tiro della mia bombarda quel sottopassaggio, dov'erano trincerati gli austriaci. Quando ho veduto la pattuglia italiana, ho disobbedito e smesso di bombardare, altrimenti li avrei massacrati. Così il tenente Baruzzi è entrato di sorpresa, ha fatto prigionieri gli austriaci, ha attraversato a guado l'Isonzo, e occupato Gorizia ». e Da solo? ». « Proprio solo no, — dice il bombardiere Azzano; — aveva con sé quattro soldati. Si è spinto fino alla stazione ed ha issato la bandiera tricolore. E noi di qua, che la vedevamo sventolare, volevamo correre tutti per entrare in Gorizia ». Non li lasciarono andare, ed anche l'allora tenente Baruzzi, oggi generale, ebbe le sue rogne prima di ricevere la medaglia d'oro. Anch'egli, come il bombardiere Azzano, aveva fatto di testa sua, e l'audacia lo aveva premiato. Con la sua pattuglia di quattro soldati catturò duecento prigionieri austriaci e tenne Gorizia per 24 ore; il grosso delle truppe entrò nella città martirizzata la mattina successiva, il 9. agosto 1916. Erano occorsi quindici mesi di lotte feroci e fiumi di sangue per giungere sulla sponda orientale dell'Isonzo e conquistare Gorizia. «Sempre nuovi reparti, — scrisse il gen. Kraus, capo di Stato Maggiore della 5' Armata austriaca sul Podgora, — attaccavano se i precedenti ripiegavano distrutti. Procedevano sul campo di cadaveri fin nelle nostre trincee, dove erano annientati dal fuoco... Così attaccano solo i buoni soldati ». Ed i buoni soldati, alla fine, erano entrati a Gorizia semidistrutta dai bombardamenti. I liberatori fecero il bilancio della città dilaniata: 680 case distrutte, 2013 danneggiate gravemente. E sotto le macerie, tanti, tanti morti. « Appena entrato in città, corsi alla mia casa, — dice il bombardiere Azzano. — Mia madre era ancora nascosta in cantina, coi bimbi più piccoli. Mi pareva fossero stati chiusi in una tomba tanto erano smagriti per la fame, la sete e la paura. E non osavano uscire, perché tra le rovine c'erano ancora i cecchini austriaci che sparavano ». Gorizia era liberata, il sangue arrossava le verdi acque dell'Isonzo, ed intorno, aspra corona, c'erano monti di fama sinistra nonostante i nomi celestiali: San Gabriele, San Marco, San Michele. E in lontananza c'era il Monte Nero, al quale i soldati cantavano: «Traditor della vita mia I ho lasciato la casa mia /' per venirti a conquistar ». Ed un poco più lontano c'era la Sella di Dol, tra il San Gabriele ed il Monte Santo da dove gli austriaci continuavano a bombardare Gorizia. Erano tutti ancora da conquistare per raggiungere l'altopiano della Bainsizza, altra fornace di vite umane. Francesco Rosso