Slitto e Gaine si difendono in Tribunale «Siamo rimasti senza un soldo in tasca» di Alberto Gaino

Slitto e Gaine si difendono in Tribunale «Siamo rimasti senza un soldo in tasca» Slitto e Gaine si difendono in Tribunale «Siamo rimasti senza un soldo in tasca» Gli imputati sono Alberto Gaino di 74 anni e il figlio Tommaso di 46 (arrestati) e Giovanni Sutto, quarantatreenne (a piede libero) - Tutti debbono rispondere di bancarotta fraudolenta per aver distratto 600 milioni dal fallimento dell'istituto di credito - La «Sutto e Gaino» finanziava anche le «Caramelle Coppi» - Gli accusati ammettono: «Abbiamo falsificato i bilanci per non prestare la garanzia alla Banca d'Italia; avevamo bisogno di tutto il denaro disponibile» - Oggi non c'è udienza - Il dibattito riprenderà domani con i testimoni Alberto Gaino, da sinistra, il figlio ing. Tommaso Gaino e Giovanni Sutto ieri durante l'udienza ad Acqui (Dal nostro inviato speciale) Acqui Terme, 26 febbraio. Ancor oggi, che si è giunti al processo, le ragioni del clamoroso crollo della banca « Sutto e Gaino » di Acqui restano difficili da spiegare. Era un vecchio istituto di credito, fondato nel 1924 da Alberto Gaino e dai fratelli Giacinto e Tommaso Sutto: per 36 anni aveva navigato attraverso alterne vicende, senza affondare mai. « Una piccola banca di provincia — dice l'ing. Tommaso Gaino — che operava con criteri particolari. Non ci interessavano tanto le garanzie reali: una volta che avessimo portato via la casa a un creditore insolvente, ci saremmo creati solo delle antipatie tra la popolazione. Preferivamo concedere i finanziamenti sulla base della fiducia personale, a chi sapevamo che avrebbe potuto pagare ». Era questa la forza e insieme la debolezza della banca. Alla fine del 1961, inspiegabilmente, si diffuse il panico. Da qualche tempo serpeggiavano voci allarmanti, il 31 dicembre cominciò la corsa agli sportelli. Una valanga sempre più grossa. Per tre giorni la « Sutto e Gaino » fece fronte alle richieste, pagando alcune centinaia di milioni. Poi chiuse, perché il denaro liquido era finito. Il 30 aprile fu dichiarato lo stato di insolvenza,-1'8 ot- j tobre 1962 fu spiccato mandato di cattura contro Alberto Gaino, l'unico sopravvissuto tra i fondatori, che oggi ha 74 anni, il figlio Tommaso. 46 anni, ingegnere, che col-, laborava con lui come prò- \ curatore generale, e contro Giovanni Sutto, 43 anni, succeduto al padre e allo zio nella direzione della banca. L'accusa era di bancarotta fraudolenta. Gli imputati fuggirono in Svizzera, si costituirono ai primi dì ottobre del '66. Nel frattempo un consorzio tra la Cassa di Risparmio, l'Istituto San Paolo e la Banca di Novara si era assunto il debito della « Sutto e Gaino », per tre miliardi e mezzo. I risparmiatori furono pagati fino all'ultima lira, per circa due terzi con le attività dell'istituto fallito, per un terzo — un miliardo e 310 milioni — dal consorzio. Oggi gli imputati sono comparsi davanti al Tribunale (presidente dott. Parigi, giudici dott. Cacace e dott. Torti, p.m. dott. Capozzio, cane. Scazzola). I Garno padre e figlio erano difesi dagli avvocati Gabri di Torino, Punzo e Fracchia di Alessandria e Righini di Acqui: il Sullo dagli avv. Avonto di Torino e Baldizzone di Acqui. Quest'ultimo era a piede libero: ha ottenuto la libertà provvisoria il 20 ottobre scorso. Ha detto di non sapere assolutamente nulla delle vicende della banca. Alberto Gaino, malgrado l'età e la detenzione preventiva che si protrae ormai da 14 mesi, si difende con energia. Pres. — Perché non ha depositato, come prevede la legge, un fondo di garanzia presso la Banca d'Italia, pari a un decimo dell'ammon tare dei depositi nella sua banca? Imp. — Non l'ho fatto, è vero. Ma la garanzia c'era egualmente. Ad esempio, la nostra partecipazione alla fornace Casserinl e Papis era iscritta a bilancio per il valore nominale, venti milioni. In realtà ne valeva 430 e per questa cifra, infatti, è stata venduta. La garanzia stava in questa differenza. Pres. — Però avete falsiti cato i bilanci che dovevate inviare alla Banca d'Italia, facendo figurare depositi inferiori al reale proprio per non prestare la garanzia. Imp. ,— Sì, vero. Avevamo bisogno di tutto il liquido disponibile per le nostre operazioni. Pres. — Dovete rispondere anche di aver distratto dal fallimento 600 milioni per concedere finanziamenti senza contropartite adeguate. Imp. — Tutti i soldi venivano dati a persone che davano affidamento, non abbiamo distratto una lira. Pres. — A tre ditte, in cui eravate cointeressati, avete concesso finanziamenti per 500 milioni. Troppi, rispetto al valore delle aziende, che erano la Daina Caramelle, la Rizzoglio confezioni femminili e la Medicamenta. - Jmp. (scattando vivacemente f' — Non è vero che non avevano valore. Erano aziende floride. Solo la Daina, che produceva le caramelle Coppi, ha avuto un momento di difficoltà alla morte del campione. Sull'ing. Tommaso Gaino grava in particolare l'accusa di essersi prestato per acquistare a proprio nome, con il denaro della banca, proprietà mobiliari e immobiliari. Imp. — Sì, l'ho fatto per evitare lungaggini burocratiche e perché la banca, agli occhi del pubblico, non doveva comparire in attività industriali che sarebbero anche potute finir male. Ma il 14 aprile '62, quindici giorni prima del fallimento, rilasciai al liquidatore dott. Mario Panizza una dichiarazione in cui riconoscevo che quegli acquisti — terreni, le azioni delle società Daina e Rizzoglio, della finanziaria rag. Bagnoli di Roma e della fonte Acquafranca — appartenevano non a me, ma alla banca. Non abbiamo nascosto nulla, né portato via nulla. Pres. — L'accusa dice che avete prelevato 75 milioni come profitti. Imp. — Fu un semplice giro contabile. Li prelevammo dal nostro conto personale per passarlo ad alleviare il conto " sospesi ": cioè delle partite in sofferenza che sono ferme da molti anni e quindi praticamente inesigibili. Il processo verrà sospeso domani, e riprenderà mercoledì mattina, con l'audizione dei testi. - — g m - — g. m. Cominciata il processo per il crack della banca di Acqui