Troppe critiche assurde alla «civiltà dei consumi» di Guido Piovene

Troppe critiche assurde alla «civiltà dei consumi» Troppe critiche assurde alla «civiltà dei consumi» Una delle cause maggiori di confusione, a mio parere, è un certo modo di pensare irrealistico che abolisce le distinzioni e riunisce fatti diversi nella stessa categoria per poterli colpire con la stessa condanna. Giorni fa, per esempio, ho sentito affermare in una discussione pubblica che Stati Uniti ed Unione Sovietica sono la stessa cosa, propongono esattamente lo stesso modello di vita, in quanto appartengono tutti e due alla dannata « civiltà dei consumi ». L'unica differenza sarebbe che gli Stati Uniti vi stanno dentro pienamente, mentre l'Unione Sovietica, avendo finito di essere un paese rivoluzionario, vi si incammina a grandi passi. Io non voglio proporre nessun genere di modello; ognuno scelga il suo. Dico solo che questo gioco alle identificazioni sommarie porta ad un vuoto di pensiero da cui può nascere soltanto un oltranzismo catastrofico. Il mondo del pensiero è il regno delle distinzioni. Una civiltà dei consumi e quella degli Stati Uniti e, in parte, del nostro Occidente, ma nell'Unione Sovietica non ne scorgo i segni. Non so che cosa accadrà fra centanni; mi tengo al momento attuale e ad un futuro prevedibile. Nell'Unione Sovietica una civiltà dei consumi non esiste di fatto, perché l'Unione Sovietica, da quest'angolo, se mai somiglia alle nostre provincie com'erano molti anni fa: non vedo come questa situazione reale possa suceerirc l'immagine di una civiltà dei consumi anche allo stato potenziale. Non esiste nemmeno la volontà politica di arrivarvi. Non basta infatti, per avere una civiltà dei consumi, produrre molta merce e soddisfare abbondantemente i bisogni, cosa che ancora non avviene. E non basta nemmeno una decisione politica di accrescere la quantità dei beni di consumo, né la pressione pubblica per ottenerli. Ridicolo pensare che si delinei una civiltà dei consumi solo perché la gente, stanca di molte privazioni, desidera mangiare bene e vestire elegante. Una civiltà dei consumi e quella organizzata non tanto per soddisfare i bisogni, ma per crearne sempre nuovi e maggiori; se è così, l'Unione Sovietica non procede su questa strada. Per quanto è possibile prevedere, vi si delinea invece una società di tipo intermedio; i beni di consumo vi avranno una limitata espansione, mai stimolata ma sempre piuttosto compressa, e con circolazione semisegreta dei beni di prestigio. A che cosa si mira, confondendo e identificando cose tanto diverse? L'insulso scopo perseguito e screditare e denigrare ogni forma o modello di società esistente, mostrare che non esistono differenze, e che la così detta « civiltà produttivistica », qualunque aspetto prenda, americano o sovietico o altro, conduce fatalmente ai medesimi risultati: una società che produce soltanto merci e guerre, in cui l'uomo diventa merce, la persona è annullata e ogni libertà è illusoria. Se non ci sono differenze non ci sono scelte, non esistono alternative. Si spera qualche cosa d'altro di cui non si conosce né si prevede il volto. L'integrazione dei sistemi è ritenuta un evento esecrabile, perché vorrebbe dire integrare diversi mali e precludere ogni via di scampo. Bisogna rifiutarli in blocco. Così dalla confusione, si forma il mito letterario, snobistico ed estetizzante della « alternativa assoluta » e della « contestazione globale » alla società esistente. Nessuno, se ragiona appena un istante, vede come si possa contestare nei fondamenti la « civiltà produttivistica a che sarebbe la causa di tutti i nostri affanni. La civiltà di un tempo nel quale enormi masse d'uomini, nei paesi industria lizzati, pretendono di truire di tutti i beni della vita, non può essere che produttivistica, o in una [orma o nell'altra, e non possono che imperarvi le leggi della produzione. Ne conosciamo sulla nostra pelle i malesseri, costatiamo t lati anche orrendi che una si mile civiltà comporta; schheni l'idea catastrofica, che nella ci¬ viltà di oggi l'uomo sia sempre e tutto schiavo e « alienato », è un'idea di cervelli congestionati, o di ripetitori pappagalleschi degli slogans di moda. Ad ogni modo non è certo nelle « alternative assolute » che troveremo qualche cosa di meglio. Quali potrebbero poi essere? Io ne vedo soltanto due. I popoli sottosviluppati tra i quali la parola « produttivismo » resta priva di senso, sono ancora la maggioranza. Le loro condizioni, come ha dimostrato alcuni giorni fa un articolo di Ronchey, non migliorano ma peggiorano. Un'« alternativa assoluta » potrebbe essere dunque il rinunciare a chiedere qualsiasi integrazione tra quei popoli e noi; sperando che restino estranei e finalmente ci spazzino tutti via, europei occidentali, sovietici e americani, con il radicalismo che suggerisce il rancore e la fame. Non riesco ad augurare al mondo questo genere di soluzioni, e le lascio ai dementi. L'altra « alternativa assoluta » può essere religiosa, in una delle tante vesti che il sentimento religioso può assumere. Si suppone cioè l'entrata in gioco di energie misticoreligiose, magari in veste laica, che interrompano il corso della civiltà attuale con un violento stacco, facendo morire nel vuoto i demoni che l'affliggono. Ma qui siamo nel campo del sentimento religioso, il quale si può mescolare al corso della storia, mai essere un'alternativa storica: non ci sono regni di Dio. Ma chi fa quelle chiacchiere sulla « alternativa assoluta », mancando di argomenti e di modelli anche in embrione, ha la sua botta di riserva. E' solo una parola, una parola taumaturgica: Cina; e ha puntualmente risuonato nella discussione pubblica accennata all'inizio. Questa Cina di cui, in generale, chi la nomina ignora tutto, serve splendidamente all'uso, perché assomma entrambi i caratteri della « alternativa assoluta »: è il popolo ancora arretrato che dovrebbe spazzare via tutti insieme i colpevoli di una storia inumana, ed è l'incarnazione, almeno nelle fantasie mondane e pubblicistiche, di un fenomeno religioso (il solito paragone tra cinesi e primi cristiani). La Cina è spinta avanti, non per quello che è, in questo particolare momento del suo sviluppo storico; ma, appunto, come « alternativa assoluta », un vacuo simbolo dello scassamene di tutto, un grande buco nero che dovrebbe ingoiare la nostra civiltà cattiva, un nulla indisegnabile e indescrivibile che però dovrebbe essere decisivo e totale. Se qualcuno, si noti bene, esaminando nel concreto il sistema cinese, e le sue prospettive di sviluppo futuro, (probabilmente un altro, faticoso modello di civiltà produttivistica) decidesse che il suo ideale è quello, non troverei niente da dire; io non penso così; ma ogni contestazione su termini reali è utile. Trovo anzi poco rispettoso per un movimento politico che coinvolge pressocché un terzo degli abitanti della terra, e che ha una sua logica, il trasformarlo, qui da noi, in un semplice flatus vocis di intellettuali futili e di borghesucci snob mascherati da avanguardisti. Questo gridare: Cina, Cina per dare una figura fantasmatica alla nostra nevrastenia, al nostro umore fegatoso, alla nostra incapacità di pensare e di scegliere in una situazione ingrata ed alla nostra voglia di dare un calcio a tutto, è un vero disonore intellettuale. La ragione non è tutto al mondo, ma di un po' di ragione non si può fare a meno. Guido Piovene IL MITO SNOBISTICO DELLA CINA

Persone citate: Ronchey