L'Asia è un «mistero» che l'Occidente non capisce

L'Asia è un «mistero» che l'Occidente non capisce Pericoloso contrasto tra due xxtosidti L'Asia è un «mistero» che l'Occidente non capisce L'Estremo Oriente ha creato in 2000 anni di storia una sua civiltà profondamente diversa da quella europea o americana - Credere che una vera democrazia possa svilupparsi a breve scadenza nei paesi del «continente giallo» è un errore - Gli S. U. stanno compiendo nel Vietnam uno sforzo forse vano Richard Harris, 11 giornalista Inglese considerato tra 1 massimi esperti di problemi asiatici, conclude con una nota di pessimismo la sua inchiesta sul rapporti tra America ed Estremo Oriente: una trattura profonda e torse Incolmabile, sostiene Harris, divide 1 due mondi. (Nostro servizio particolare) Londra, 16 febbraio. ba seconda guerra mondiale ha visto gli Stati Uniti a fianco della Cina, come alleati. Quattro anni dopo, erano vituperati come il peggior nemico del nuovo governo cinese. Il conflitto che ora insanguina il Vietnam è cominciato allora. La svolta decisiva si ebbe quando il presidente Truman intervenne nella guerra civile cinese per salvare Formosa come sede d'un governo rivale. Quell'intervento è stato, più d'ogni altro fatto, la vera ragione dell'intransigenza di Pechino nei confronti degli Stati Uniti. Che la guerra di Corea si sia svolta, ufficialmente, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, non altera questo carattere essenziale della lunga lotta fra l'America e l'Asia orientale. Non appena in Corea fu firmato l'armistizio, riconfermando la spartizione del Paese determinata dalla occupazione postbellica, l'impegno americano nel Vietnam cominciò a farsi più pressante. Erano i giorni di Foster Dulles, della crociata mondiale contro il comunismo inteso come un male assoluto. Agli occhi dell'allora segretario di Stato non c'erano dubbi che il comunismo cinese avrebbe cercato di espandersi nel Sud Vietnam. Fu per volontà americana che Ngo Dinh Diem prese il potere a Saigon poco prima dell'accordo di Ginevra (luglio 1954). Ciò che va sottolineato è che nell'urto con la Cina, prima in Corea e ora nel Vietnam, gli americani hanno sempre pensato in termini di « perdere » e di « salvare ». In quale altra parte del mondo gli americani hanno mai usato verbi così significativi? Ma salvare poi che cosa? E perché? Non si tratta certo di salvare una futura ipotetica democrazia che nell'Asia orientale non c'è mai stata. «In fondo — mi disse due anni fa, a Saigon, un funzionario americano .— 'noi combattiamo questa guerra per scongiurare un attacco cinese contro l'Australia ». Durante il conflitto di Corea si diceva che la vera posta in giuoco non era tanto Seul quanto Tokio, cioè la minaccia cinese al Giappone. Naturalmente a Washington si afferma che nessuno vuole rovesciare il governo di Mao Tse-tung, ma soltanto « contenerlo ». E in questo quadro generale strategico sarebbe desiderabile riuscire anche a preservare, a Formosa come nella Corea del Sud e nel Vietnam, le neonate libertà politiche interne. Senza dubbio una larga parte dell' opinione pubblica mondiale vedrebbe con simpatia l'azione americana se il problema fosse così semplice. La tragica verità è che le intenzioni moralistiche non hanno alcun rapporto con i fatti reali. L'Asia orientale, occorre ripeterlo, ha sviluppato in duemila anni di storia una sua propria civiltà. Piaccia o no, le sue caratteristiche differiscono profondamente da quelle delle civiltà evolutesi altrove. Se non comprendiamo questo, la guerra del Vietnam potrà andare avanti per altri trent'anni. In Cina, Corea, Vietnam il comunismo è cresciuto sulle radici del confucianesimo. I nuovi governi proclamano la stessa convinzione morale ed esigono la stessa lealtà che in passato. Per le popolazioni dell'Asia orientale, dottrina e governo sono la stessa cosa. Non ptaò esistere che un solo governo, portavoce d'una soia dottrina, o ideologia-. E' inutile quindi cercar di sostenere, contro i regimi comunisti, governi che non possiedono altra bandiera che un vuoto anticomunismo. I governanti di Seul, Taipei e Saigon sanno benissimo tutto questo, sperano soltanto che non lo capiscano i loro alleati occidentali. Nell'Asia orientale non bisogna mai trascurare l'ideo logia, e la forza ohe un'ideologia può dare a un governo. Ciang Kai-shek è fallito perché non ha saputo offri re ai suoi altro che un neoconfucianesimo di stampo ottocentesco. Ngo Dinh Diem, che pure era un uòmo veramente integro (alla maniera orientale, s'intende, con la sua spietatezza) non poteva sperare d'aver successo importando dalla Francia il «personalismo» d'un Emmanuel Mounier. La Cina, insieme col Vietnam e la Corea, sta ora consapevolmente rinnovando la propria civiltà, anche se, sotto parecchi aspetti, si tratta soltanto di mettere il vino vecchio del marxismo entro bottiglie nuove. E' un'operazione che può riuscir bene, ma che presenta tuttavia più d'una difficoltà. Il capo della Corea del Nord, Kim Il-sung, appoggiato dai russi, sembra l'uomo che ha avuto minor successo. Ho Ci-min si presenta come una vera figura nazionale, anche se ha avuto la mano meno felice di Mao Tse-tung nel fondere insieme nazionalismo e comunismo. L'Occidente deve rendersi conto che il movimento di rinascita nazionale, in tutta l'Asia sudorientale, deve avere a fondamento un'ideologia. E' assolutamente improbabile che uno di questi regimi co munisti venga rovesciato dalla popolazione se questa non 10 vede prima crollare dal di dentro, moralmente, e se non sorge un'altra ideologia più convincente. Nel maggio del 1949, a Shanghai, io fui « liberato » dal sopraggiungere dei comunisti. Cinque anni dopo, ad Hanoi, fui « liberato » una seconda volta allorché 11 governo della città fu assunto dai comunisti in seguito all'accordo di Ginevra. L'unità politica dell'Asia orientale non avrebbe potuto esprimersi in maniera più chiara sia nel modo in cui i nuovi arrivati furono accolti dalla popolazione, sia nell'idealismo e nella serietà dei conquistatori, sia nella forma in cui fu imposto il loro regime. Credere che, nelle ristrette zone dell'Asia orientale tenute tanto faticosamente dagli americani possa, in un futuro relativamente prossimo, svilupparsi una vera democrazia, vuol dire non aver capito niente. Non c'è elettorato. L'idea di fare una scelta individuale non ha senso, almeno oggi, per gli abitanti dell'Estremo Oriente asiatico. Ciò potrebbe avvenire, ed è discutibile, soltanto nell'ambito di un « loro » pensiero, d'una « loro » ideologia, non certamente secondo le regole d'una dottrina occidentalizzante ad essi estranea. Tutto sommato, era diffìcile, per l'America, scegliere un terreno peggiore del Vietnam dove puntare 1 piedi. Ma è accaduto, ed è una tragedia. Che soluzione può esserci per gli americani, se non andarsene? E non soltanto dal Vietnam. Formosa e la Corea fanno parte di uno stesso problema, anche se la soluzione, e i tempi di essa, potranno essere diversi. La carica emotiva che contrappone alla Cina un'America potente e idealistica deve finire con l'allentarsi. L'America è una potenza mondiale e ha tante altre responsabilità, molte dnlle quali potranno darle le soddisfazioni venute a mancare in Cina. E non è detto che il dramma debba finire male. Quando l'Asia orientale si stabilizzerà, il modo di vivere e di pensare che prevarrà sarà diverso dal nostro ma la coesistenza con i vicini dall'altra parte del Pacifico sarà possibile. Per concludere, si potrebbero formulare alcune considerazioni già suggerite' a chi scrive dalle due « liberazioni », e dallo studio dei movimenti rivoluzionari d'estrema sinistra o dichiaratamente comunisti nel resto dell'Asia. Il comunismo si è adattato, nell'Asia estremo-orientale, alle esigenze locali e quindi non è esportabile. La democrazia come la intendiamo noi va contro tutte le tradizioni dell'Asia orientale e non può esservi importata dagli stranieri. Per contrasto, una vera spinta dal basso, verso la democrazia, esiste in tutte le altre regioni dell'Asia. Se questa spinta verrà soffocata, i governi si troveranno in casa la guerriglia che meritano ma il comunismo « alla cinese » non avrà mai fortuna, per quanto Mao lo incoraggi. Perché le relazioni fra l'Asia estremo-orientale ed il resto del mondo si stabilizzino, ci vorrà tempo. L'attuale fase di rivolta contro il mondo — contro tutto il mondo esterno — è il prodotto di un lontano passato. Ci troviamo di fronte ad una civiltà ripiegata su se stessa (dietro la grande muraglia) capace di furia e di aggressività se privata di quelli che ritiene essere i propri diritti. Non può essere, in questa fase di auto-rinnovamento, una civiltà espansionistica come tanti temono. Richard Harris Copyright di « The Times » e per l'Italia de «La Stampa»