E' l'ora della barca a vela

E' l'ora della barca a vela Domenica si chiude il 70 Salone nautico internazionale E' l'ora della barca a vela Si prevede, entro quest'anno, la vendita in Italia di almeno 15 mila nuove imbarcazioni da diporto - In totale, nel nostro Paese, sono già più di 100 mila i natanti di proprietà privata - A Genova, quasi tutti i 600 espositori hanno già esaurito le scorte - Le preferenze si orientano sempre più verso i battelli privi di motore, nei quali bisogna cimentarsi con il vento e con le onde, nella libera natura (Nostro servizio particolare) Genova, 8 febbraio. Stiamo diventando navigatori, non c'è dubbio. La diminuzione delle distanze dai paesi più. evoluti si misura anche da un salone nautico: negli anni cinquanta avevamo una barca (escluse quelle minime a remi) per diecimila abitanti, ed oggi il rapporto è di una per quattrocento (una per sessanta in Inghilterra, una per ottanta in Francia). Il ritmo di accrescimento della flotta da diporto è impetuoso: i nostri cantieri e gli agenti di quelli esteri venderanno nel 1968 più di 15 mila unità. Al « Salone » di Genova, non ancora chiuso, molti dei seicento espositori non hanno più nulla da offrire per la stagione 1968; sono esaurite le scorte di barche disponibili, e già si raccolgono prenotazioni per il 1969. Il mercato si è esteso ai tipi di imbarcazioni che dicono la maturità marinara di un popolo, anche il suo grado di civiltà nel rapporto con la natura. Si vendono, cioè, molte barche fatte per la vita libera e nomade nel tempo delle vacanze; quelle che testimoniano un più diffuso amore del mare, dei laghi e dei fiumi, e un ritrovato gusto dell'umiltà nel godimento di mezzi che non sono pure e semplici prove di « consumi aggiunti ». Un dato: quasi seimila canotti pneumatici venduti nella stagione 1967, e nel 1968 saranno forse diecimila. Diventano perfetti e sicuri; hanno il pregio del minimo ingombro. I cantieri italiani vantano tradizioni pari a quelle dei liutai di Cremona in tutto 11 mondo. E in passato producevano soltanto per le élites. Nei santuari delle vacanze più raffinate non mancano mai un principe e una splendida, ricchissima ragazza, che fanno lo sci nautico trainati da uno di quei motoscafi italiani entrati nelle leggende personali dei divi del cinema (la coppia Bardot-Vadim, negli anni d'oro di Saint-Tropez) come i Riva per gli entrobordo veloci, 1 Baglietto per quelli da crociera. Si possono nominare come Ferrari e Jaguar, tanto sono celebri in California e alle Baleari. Oggi agli stradivari della costruzione navale si affiancano gli artigia¬ ni e gli industriali senza nome, quelli che si preoccupano di trarre partito dall'esperienza degli artisti per produrre buone bacche di serie a basso costo. Uno yacht a vela e motore lungo undici-dodici metri, disegnato espressamente per regatacrociera, costruito da un maestro e curato appunto come un liuto cremonese, può costare più di trenta milioni; costruito in serie, su disegni firmati da eccelsi progettisti come Illingworth, Stephens, Clark, costerà un terzo. Il « Salone » di Genova, come quello di Londra, appartiene alle barche fatte in serie, allo « sloop » di 7 metri venduto per 3 milioni. Resta vivissima la tradizione, che frutta miliardi all'Italia (venti miliardi di esportazioni, lo scorso anno: quasi tutti scafi di grandissimo pregio). E si arricchisce la cantieristica economica. Fatto rivelatore della di¬ sponibilità lombarda ed emiliana alle innovazioni, i cantieri più vivi alla mostra hanno sede nelle « basse » che un tempo furono agricole, attorno a Bologna e a Modena, nella zona di Offanengo, naturalmente nella cintura milanese. Agli albori fu un'industria rivolta alla produzione di scafi in plastica, a remi e a motore. Poi, per un naturale aggiustamento, comparve la vela: oggi i migliori scafi da competizione, nella gamma delle barche leggere e plananti, si fanno in Lombardia. Nel 1960 si costruirono in Italia meno di 500 imbarcazioni a vela; qualche migliaio a remi e a motore. Nel 1966 gli scafi a vela furono 612, nel 1967 1484, per metà in plastica. Aggiungendo un migliaio di « cabinati » e « semicabinati » a vela e motore si arrivava a una cifra sempre modesta, pari al 15 per cento circa della produzione nazionale (17.397), dominata dai motoscafi piccoli e grandi (più di cinquemila fuoribordo, un migliaio di entrobordo con cabina intera o parziale). Ma ecco l'evoluzione del 1968 al «Salone» di Genova: si restringe al 30 per cento l'area delle barche a motore esposte, si avvicina al 20 per cento quella delle barche a vela (pura o con motore ausiliario). La categoria del « cabinati » a motore, per la prima volta, ha avuto una parte inferiore a quella della vela: 15 per cento degli scafi esposti. I significati popolari sono chiari: ogni anno almeno 15 mila italiani diventano navigatori, e lo fanno non per esibizionismo ma per autentico amore della navigazione. Di altura o sottocosta e lungo i fiumi poco importa. E' un fenomeno grandioso. Gli stranieri ne avvertono l'importanza: 57 espositori francesi, 50 inglesi, 38 americani, 23 tedeschi, e celebri cantieri scandinavi, olandesi, hanno portato molte imbarcazioni miste ed economiche. I francesi, che in Mediterraneo sono in testa per numero, per qualità di barche e per preparazione di equipaggi (anche per attrezzature a terra e porticcioli), presentano intere gamme di scafi in plastica: dal piccolo « Copain » lungo m 5,25 (riesce a contenere due cuccette, è insommergibile, pesa meno di 500 kg pur avendo una zavorra di 180 kg, ha 13 mq di vela), offerto al prezzo di un'automobile per famiglia, al « Pampero » lungo m 5,74 (tre cuccette, servizi igienici, cucinino, randa e fiocco, motorino ausiliario) al « Supermistral » (7 metri, 4 lettini, cucina, gabinetto, randa e fiocco per 22 mq di vela, motore ausiliario), che costa meno di tre milioni. I francesi hanno alle spalle le fresche esperienze di una nuova generazione di navigatori, capeggiati dal famoso Eric Tabarly che ha vinto la più dura regata del mondo, la Sydney-Hobart, come preparazione alla regata per solitari attraverso l'Atlantico in programma fra pochi mesi. Ed hanno una «nouvelle vague» di progettisti che tengono testa agli inglesi: l'« Arpège » di Michel Dufour ha letteralmente incantato gli esperti e i visitatori del Salone che avevano gli occhi aperti alle vele. Michel Dufour e il suo cantiere erano pressoché sconosciuti fino a pochi anni fa; un progetto azzeccato, una barca fortunata, ed è la fama internazionale. Per avere un « Arpège » si deve aspettare fino all'estate 1969; è una barca in plastica, insolitamente larga (3 metri su 9 di lunghezza), che ha vinto la coppa dell'Atlantico, il trofeo mondiale di «Yachting World», un gran numero di regate sulle coste atlantiche e sulla Manica. Il suo ideatore ha bruscamente abbandonato il filone delle barche sottili e con profonda immersione: il suo è uno scafo tondo e quasi piatto sotto la linea di galleggiamento. I cantieri italiani non sono da meno per qualità, hanno motori ausiliari oggi richiestissimi dall'estero. In gran parte si ispirano a disegni stranieri, soprattutto inglesi per gli scafi. Ma già cominciano le buone prove di ricerche autonome: ecco il signor Daniele Bulzza proporre l'«Ander», da lui disegnato. Una barca di 9 metri per regata e crociera con vela pura, senza motore. Esperti e no girano attorno a questi scafi, si consultano, prendono appunti per i confronti. Fatto da annotare: i più assidui, per la vela, sono i torinesi. Mario Fazio Una veduta del Palazzo dello Sport, a Genova, tra le «vele» esposte (Foto Leoni)

Persone citate: Baglietto, Bardot, Daniele Bulzza, Eric Tabarly, Hobart, Mario Fazio, Michel Dufour, Stephens