Elogio della galera di A. Galante Garrone

Elogio della galera Lettere dal carcere di Ernesto Rossi Elogio della galera «Se un giorno scriverò L'elogio della galera... »: così diceva, tra serio e faceto, Ernesto Rossi in una lettera del 1936 da « Regina Cocli *. Non scrisse mai il libro che forse aveva in mente. Ma questa raccolta delle sue lettere dal carcere (1930-1943), che oggi pubblica Laterza con lo stesso titolo, è qualcosa di più: raffigurazione della vita di un prigioniero politico sotto il fascismo, romanzo autobiografico, vivace galleria di ritratti, altissima testimonianza civile. Un libro che resterà nella nostra storia, fra le lettere di Settembrini e quelle di Gramsci. Una vena ironica percorre qua e là l'ampia raccolta, e ne giustifica il titolo. Dopo tutto — diceva spesso Rossi alla madre Elide e alla moglie Ada — anche la vita in carcere aveva i suoi vantaggi, di tranquillità, di assistenza, continua, di precisione metodica, di raccoglimento interiore; e del resto già Trotzki aveva detto che quello era il solo luogo dove non ci si dovessepreoccupare di venire arrestatiMa al di sotto di queste frasi scherzose, intese a rassicurare e rasserenare, c'era un fondo serio: la tranquillità della coscienza (« rimanere in pace con me stesso, è più facile in galera che fuori »), la convinzione della non inutilità del proprio sacrificio («.son convìnto che servo più alla mia idea di quanto potessi fare in libertà. E questo e l'importante; perché non occorre credere che debba raccogliere la stessa persona che ha seminato »). Cattaneo, Tocqueville, Mosca, Pareto, De Viti De Marco, vSalvemini: questi gli autori prediletti, che il suo carteggio ci rivela, e sono alla base della sua cultura, della sua forma mentis chiara e positiva; e, nel campo più specifico delle dottrine economiche, Ferrara, Pantaleoni, Marshall, Jevons e soprattutto Wicksteed. Di anno in anno, scorgiamo l'evolversi del suo pensiero politico-economico, che da un liberismo fisiocratìco e manchesteriano approda a un liberalismo socialmente aperto, venato di simpatie socialiste e « giacobine ». Era un liberalismo, il suo, che non poggiava sugli ideali della crociana « religione della libertà » professati, in assidua polemica con lui, da alcuni dei suoi compagni di cella; ma piuttosto era frutto di un'empirica e disincantata considerazione dei fatti, di un assoluto rispetto delle coscienze libere e autonome, di uno sdegnoso rifiuto d'ogni imposizione autoritaria come di ogni conformismo gregale. Disprczzava i « molluschi » e i voltagabbana, di cui la cronaca di quegli anni gli forniva un così ricco campionario. Diceva: < la poesia del Giusti su Girella dovrebb'essere musicata come inno nazionale *. Ma in lui, all'istinto di libertà si univa, prepotente, un istinto di giustizia. Sentiva di appartenere a un ceto privilegiato, che soprattutto fruiva del privilegio della cultura; e questa persuasione lo spronava a sacrificarsi per gli altri, specialmente per i meno privilegiati, ad. assumersi sempre nuovi doveri, a pagar di persona. « Io credo che non potrei guardare in faccia a un operaio, se non avessi coscienza che le idee che ho sostenute e che sempre sosterrò hanno un valore per l'umanità, dì cui egli pure fa parte ». Di qui, da questo assillo prima di tutto morale, nacque e si irrobustì in lui la convinzione che compito dei veri liberali fosse quello di abbattere i privilegi (a cominciare da quello dell'istruzione) per « rendere il più possibile eguali le condizioni iniziali degli individui nella lotta per la vita ». Più tardi, egli avrebbe condensato questa esigenza nella formula della « eguaglianza delle condizioni di partenza ». Ritroviamo in queste lettere non pochi dei motivi che poi saranno al centro delle sue opere mature. Se pensiamo a uno dei suoi scritti più felici, Abolire la miseria, ne scorgiamo addirittura i primi germi nei generosi sogni dello studente liceale, che camminava sui Lungarni fino a notte tarda, meditando su quel che fosse possibile fare per « diminuire l'ingiustizia e la miseria nel mondo ». Questi sogni giovanili avrebbero pre- so corpo nelle lunghe meditazioni del carcere, precisandosi in proposte concrete, in ragionamenti economici, senza la minima concessione all'astratto e sentimentale fantasticare degli utopisti, dei riformatori in grande, che egli aborriva. Diceva: e L'Arcadia va lasciata ai poeti ». E a leggere bene tra le righe, vediamo nascere anche altri temi, più tardi sviluppati: come le responsabilità occulte dei t padroni del vapore », o il federalismo europeo. Tutti argomenti ai quali il nome di Ernesto Rossi resterà legato per sempre. Il suo stesso abito scientifico, unito a una visione pessimistica degli uomini e del loro futuro, gli dava a volte una chiaroveggenza quasi profetica. Già nel 1935 Io turbava la prospettiva di orrende guerre atomiche. « Cosa succederebbe se si riuscisse... a disporre dell'energia risultante dalla decomposizione dell'atomo? *. Il suo pessimismo di fondo sulla natura umana, sulle debolezze e viltà degli italiani, si stemperava tuttavia nella festevolezza del suo straordinario umorismo, e nella sua grande bontà, che lo rendeva indulgente verso chi non aveva saputo trovare in sé la forza di resistere, e gli faceva riconoscere anche i meriti — pochi — dei suoi nemici. E specialmente, a riconciliarlo con l'umanità, erano valsi alcuni uomini che aveva incontrato nella vita, ed egli soleva chiamare il « sale della terra i: uomini come Bauer, Rossi-Doria, Ceva, i Rosselli, Parri, Calace, Foa, Monti, Mila, Giua, Fancello, e più di tutti Salvemini. Il consorzio con questi uomini liberi lo confortò nelle ore più dure. Ma più di tutto lo sorresse una fede tutta umana, e vorremmo dire mazziniana (di un Mazzini spoglio di qualsiasi misticismo), nell'opera oscura e silenziosa di chi giorno per giorno fa quello che gli par giusto fare, di chi ascolta la propria coscienza e ad essa sola sente di dovere render conto. Per questo, il pessimismo si convertiva in febbre d'azione. « Conosco l'Italia e non mi faccio illusioni... Eppure l'indifferenza mi è stata sempre impossibile, perché nella mia terra ho le più profonde radici della mia vita spirituale e perché l'Italia non potrà esser diversa se non siamo capaci di volerla diversa. E volere è agire *. Questo illuminista del noiiiiiiMiiiiiiHininiMiiiniiiiiiiiMiiiiiiiiiiHiiiiiin stro tempo non smarrì mai la fede nella ragione umana. Per quanto buio si addensasse all'intorno, pensava che il primo dovere dell'uomo fosse quello di non rinunciare, al « débole e vacillante chiarore del cerino acceso dalla nostra ragione ». Non c'era orgoglio nelle sue parole; c'era anzi un'aperta professione di umiltà di fronte al mistero che faceva chinare il capo a tanti esseri umani. Ma non aveva dubbi su quella che fosse la sua parte di uomo sulla terra. E riprendendo (credo inconsapevolmente) una metafora di Diderot, soggiungeva: « lo però continuo a tener tra le dita il mio cerino acceso. Se lo lasciassi spengere, mi parrebbe di spengere me stesso ». A. Galante Garrone

Luoghi citati: Italia, Mosca, Pareto