Benedetto Alfieri celebrato nel bicentenario della morte di Marziano Bernardi

Benedetto Alfieri celebrato nel bicentenario della morte Torino ricorda oggi il grande architetto Benedetto Alfieri celebrato nel bicentenario della morte Il nipote Vittorio Io ricorda come «veramente degn'uomo» in un'affettuosa rievocazione - Architetto di Corte, costruì i teatri Regio e Carignano, chiese, palazzi - E fu, come dimostra Piazza del Municipio, un geniale urbanista All'altro Alfieri, il più famoso, quel « semi-zio » cugino di suo padre, «chiamato il conte Benedetto Altieri... primo architetto del Re », lasciò il ricordo di « un veramente degn'uomo, ed ottimo di visceri ». Le tre paginette dedicategli nella Vita sono un capolavoro di finezza, dove una certa dose di umoristica irriverenza del « ragazzaccio ignorante » ch'era allora Vittorio si sposa al devoto riconoscimento delle alte doti di quell'uomo « semplicissimo di carattere » che non nominava mai Michelangelo Buonarroti « senza o abbassare il capo, o alzarsi la berretta » in segno di rispetto; e che aveva cancellato le « picciole macchie » di un suo soverchio adattamento al gusto dei « moderni » con l'adorazione del « bello antico » e con la costruzione di alcuni edifici egregi, primissimo il « regio teatro da lui con tanta eleganza e maestrìa ideato, e fatto eseguire ». (Ma insieme al Regio, costruì anche il Teatro Carignano). Da questo passo del celebre libro moverà stasera il professor Augusto CavallariMurat, docente nel Politecnico di Torino, per commemorare il successore di Filippo Juvarra quale architetto della Corte sabauda, nel secondo centenario della sua morte; sia pure con un lieve ri- tardo perché Benedetto Alfieri, di nobile famiglia astigiana, nato casualmente a Roma nel 1700 da genitori giramondo che lo lasciarono a braccia mercenarie da cui lo tolsero le affettuose cure del papa Innocenzo XII, educato dai gesuiti romani e poi da quelli torinesi del Collegio dei Nobili, modesto avvocato prima di rivelarsi architetto verso il 1730, morì a Torino ij 9 dicembre 1767. Ma quest'indugio di due mesi sarà compensato da una circostanza suggestiva. Difatti il Cavallari-Murat terrà il suo ampio e dottissimo discorso a un pubblico di invitati nell'« Odèo » (il salone per musica costruito da Giuseppe Talucchi fra il 1839 ed il '40) dell'Accademia Filarmonica di Torino: ed è ben noto che questa società di musicofili costituitasi nel 1814 e col tempo trasformatasi in un club che si fuse nel 1947 con la cavouriana « Società del Whist », ha sede nell'antico Palazzo Isnardi di Caraglio, già Palazzo Senantes in piazza San Carlo. Altrettanto noto è che il solenne edificio castellamontiano fu, a partire dal 1753, rimaneggiato da Benedetto Alfieri, dotato della facciata verso via dei Conciatori (oggi Lagrange), ed all'interno — con una collaborazione non nettamente distinguibile ma certo subordinata dell'architetto Giambattista Borra — stupendamente riplasmato: ottenendo le tre meravigliose sale del braccio a sinistra del cortile, e la sfarzosa galleria e il delizioso « salotto ottagonale », che in duecento anni furono ammirati da innumerevoli viaggiatori stranieri (ricordiamo lo stupore di esperti francesi avvezzi alle seduzioni del loro « Luigi XV »), e compongono una delle più squisite espressioni del Rococò piemontese, dilatato a un gusto che si deve dire europeo. Dall'oratore lo stile dell'Alfieri sarà dunque chiarito nel cuore stesso di quella ch'è stata forse la sua più congeniale e perfetta creazione. E a chi saprà intendere e vedere apparirà limpida una verità: che i cristalli e gli ori, e in genere — afferma il Cavallari-Murat — « una materia scintillante nella quale l'Alfieri esteticamente credette, furono per lui una sostanza valida: non una sostanza materiale, bensì una sostanza spirituale, necessaria ed insostituibile nella formazione d'una immagine architettonica rococò a metà del Settecento... preziosa sostanza che non era solo una "galanteria" di costume, ma un'esigenza di totalità figurativa ». Pensiamo di non esagerare dicendo che in questi ambienti, più che la sintesi, è il culmine — toccato in tempo prima che lo raggelasse l'incalvante nuova poetica neo-classica — di quella elaborata civiltà artigianale che Filippo Juvarra, con la geniale sua molteplice attività di « regista » artistico in una Torino divenuta davvero « regale », aveva saputo promuovere e raffinare situando sullo stesso livello estetico l'ebanista e il pittore, l'architetto e lo stuccatore, il disegnatore di giardini e il doratore di soffitti e lo scultore: cioè ricomponendo in unità stilistica i più diversi moti della fantasia, coralmente intesi. Tuttavia il palazzo del marchese Angelo Carlo Francesco Isnardi di Caraglio non era in fondo che una delle « molte e molte case dei primi di Torino » che il seminipote Vittorio diceva esser state da Benedetto « abbellite o accresciute, con atri, e scale, e portoni, e comodi interni »; e potremmo rammentare 11 Palazzo Chiablese, il Palazzo Barolo, il Palazzo Turinetti di Cambiano, il magnifico Palazzo Morozzo della Rocca, distrutto dal bombardamento della notte sul 9 dicembre 1942, i Palazzi Piossasco di Rivalba, Giannazzo di Pamparato, Solaro, Asinari di San Marzano. Non è necessario ricordare i moltissimi lavori in Palazzo Reale, specie nella Galleria del Daniele e nella Galleria del Beaumont. Bisogna invece tener conto di quanto osserva il Cavallari-Murat: « Gli architetti del Settecento, e specialmente i torinesi, hanno lavorato bene nel mettere a fuoco sperimentalmente il concetto di integralità dimensionale per cui urbanistica - architettura - arredamento costituiscono un continuum, cioè una qualità unica d'arte, senza soluzioni di continuità determinanti penosi effetti estetici ». Benedetto Alfieri, equilibrato fra il Juvarra e il Plantery, devoto al suo Michelangelo ma non indifferente al fascino guariniano, attento certamente alle realizzazioni provinciali del Vittone, è un luminoso esempio di quella integralità. Perciò egli non è soltanto l'elegantissimo ideatore di soluzioni architettonico-decorative per dimore patrizie nella misura di un castigato Rococò; non soltanto (a parte i promettenti esordi ad Asti, a Casale, e ad Alessandria col Palazzo Ghilini che gli procura la fiducia di Carlo Emanuele III) il sagace interprete e perfezionatore del progetto juvarriano per il Teatro Regio, ed il geniale costruttore della famosa chiesa di Carignano, la cui planimetria « a ventaglio » non è frutto di capriccio, ma « una deduzione da una chiara razionale assunzione di schema » in ossequio alla liturgia post-tridentina che imponeva numerosi altari trattati con pari dignità. Egli è anche un urbanista principe, degno di ricevere la fulgida eredità del Juvarra. La sua grande prova di capacità urbanistica, sulla traccia del Plantery, è la rimodellazione da medioevale in moderno del centro civico, sotto ogni aspetto diverso r'i quello regio, di Torino: la trasformazione della piccr'i Piazza delle Erbe (piazza d-1 Municipio) in «uno spazi apparentemente più amp!i per esigenze di prestigio e per necessità di continuiti ideale nel corpo cittadino ». Si deve riconoscere ch'egli in quest'impresa, come in tante altre sue, è stato maestro. Eppure Benedetto Alfieri restò escluso dal Briiickmp'rn quando numerò le « tre st^lle » — Guarini, Juvarra, Vittorie — del firmamento architettonico piemontese. Forse è un'ingiustizia che va riparata. Marziano Bernardi I i di il