Un vicolo cieco di Ferdinando Vegas

Un vicolo cieco Un vicolo cieco Comunque vadano a finire i combattimenti ancora in corso a Saigon e nelle altre città investite una settimana fa dai vietcong, il risultato dell'audace impresa appare già acquisito. I comandi americani, considerando il numero ingente delle perdite avversarie, ritengono che la partita si sia risolta a proprio favore; Johnson stesso ha dichiarato l'attacco dei vietcong un « completo fallimento ». Ma la valutazione non può restringersi a questo aspetto, perché la perdita di 20 mila uomini è infine poco rilevante per un popolo che è da oltre vent'anni in guerra e conta ormai i propri morti con ben altro ordine di cifre. Sarà eroismo, sarà stoica rassegnazione: il punto di vista vietnamita è quello espresso dal generale Giap: « Ogni minuto, centinaia di migliaia di persone muoiono in tutto il mondo. La vita o la morte di cento, mille o decine di migliaia di esseri umani; anche se sono i nostri stessi compatrioti, realmente rappresenta molto poco ». Occorre dunque allargare lo sguardo all'intero panorama, militare e soprattutto politico. Da questa visuale appare evidente che i nordvietnamiti ed i vietcong hanno riportato un innegabile successo. Che cosa si proponevano? Non di occupare stabilmente Saigon e le altre località, ma di gettare lo scompiglio nell'apparato militare americano e sudvietnamita, di dimostrare l'inconsistenza del regime di Saigon, insomma di far saltare quelli che Le Monde ha chiamato « gli ultimi miti della politica degli Stati Uniti nel Vietnam ». Così è stata dimostrata la inefficacia dei bombardamenti sul Nord (cominciati esattamente tre anni fa, il 7 febbraio '65) a vincere la guerra nel Sud. L'aveva già riconosciuto McNamara, che forse proprio per questa coraggiosa ammissione ha dovuto abbandonare il Pentagono; ora la conferma è venuta dall'inesausta vitalità spiegata dai vietcong e dai nordvietnamiti, come se il Nord fosse intatto. Ancora, è smentita l'affermazione che due terzi del Vietnam meridionale erano «pacificati », « sicuri » o « relativamente sicuri »; mentre invece i vietcong sono balzati da ogni angolo del Paese, si sono mossi dovunque a proprio agio, persino nel cuore di Saigon. Forse buona parte della popolazione ha assistito passivamente, più che collaborato attivamente: è umano, per un popolo martoriato, sopraffatto da forze incontrollabili. Resta il fatto che i vietnamiti del Sud se non amano i comunisti, non amano neppure gli americani, che ai loro occhi sono invasori stranieri, sostenitori di un regime senza base popolare, causa fondamentale della rovina materiale e morale del Paese. Il giudizio può sembrare duro, ma è quello riportato da tutti gli osservatori spassionati che si sono recati nel Vietnam meridionale: ultimamente anche dal senatore Edward Kennedy, che è tornato scandalizzato dalla corruzione dilagante a Saigon e dalla nessuna voglia dei sudvietnamiti di combattere per il proprio governo. Cade così una delle giustificazioni principali dell'intervento americano: che es¬ so sia stato intrapreso per consentire ai sud-vietnamiti di reggersi liberamente, anziché cadere sotto il dominio comunista. Il principio è giusto, ma l'applicazione si è rivelata completamente negativa, perché infine la libertà degli americani non è quella dei vietnamiti. Questi, come tutti i popoli già soggetti al dominio coloniale, per libertà intendono essenzialmente l'autodeterminazione nazionale, l'essere lasciati liberi di fare a casa propria quanto ritengono più confacente al proprio sviluppo. Poiché i più energici assertori di questa richiesta sono i comunisti, così l'intervento americano nel Vietnam ha avuto il risultato non di isolare i comunisti, ma di saldare comunismo e' nazionalismo. Questa è dunque la situazione di fondo del Vietnam, nella quale si sono inseriti gli ultimi avvenimenti. Come possono rispondere efficacemente gli Stati Uniti? Se Johnson fosse libero di tener conto soltanto dell'interesse dell'America, scrive The Observer, una sola lezione potrebbe trarre dai sanguinosi combattimenti della scorsa settimana: che le truppe americane dovrebbero ritirarsi dal Vietnam nello stretto tempo materialmente necessario. Ma, soggiunge subito il giornale londinese, « la tragedia della sua situazione — e del suo Paese — è che questa è l'unica cosa che gli Stati Uniti non possono fare ». E' una tragedia ben diversa da quella del popolo vietnamita, ma è pur essa una realtà, che va riconosciuta in tutta la sua importanza. Per gli americani, ormai, non si tratta più di puntare su una vittoria, che si rivela impossibile, a meno di distruggere fisicamente il Vietnam, ma di trovare una via onorevole per uscire dal vicolo cieco in cui si sono racchiusi. Si sa che Johnson, sinceramente, non desidera di meglio; perché il desiderio si realizzi occorre che egli compia un atto supremo di coraggio, quale solo i popoli veramente forti possono permettersi, senza scapitare né nella potenza né nel prestigio. Ferdinando Vegas

Persone citate: Edward Kennedy, Johnson