«Fuochi nella pianura» di Ichikawa una spietata condanna della guerra

«Fuochi nella pianura» di Ichikawa una spietata condanna della guerra SULLO SCHERMO «Fuochi nella pianura» di Ichikawa una spietata condanna della guerra Il film del regista nipponico ha inaugurato degnamente la stagione torinese del «cinema d'essai» - «Diabolik» di Mario Bava: storia ispirata ai fumé:':'. (Centrale) — La stagione torinese del cinema d'essai non poteva cominciar più degnamente che da questo film giapponese di Kon Ichikawa (il regista dell'Arpa birmana), Fuochi nella pianura («Nobi »), che sebbene vecchio di nove anni (fu premiato a Locamo nel '61), resta un'opera assai notevole. Il tema è la guerra, anzi la condanna della guerra; una delle più sottili e spietate che si siano mai viste sullo schermo. Il soldato Tamura è difficile dimenticarlo. Tagliato fuori, con altri pochi, dal grosso delle forze nipponiche incalzate dagli americani nelle Filippine, vaga febbricitante, con la tubercolosi addosso, in cerca di un ospedale da campo che non lo respinga perché non abbastanza malato. Altrimenti dovrà seguire il consiglio del suo tenente, un fanatico guerriero: farsi saltare in aria con l'unica bomba a mano che gli rimane. Tamura, respinto un'altra volta dai sanitari, si rifugia ai limiti della foresta, mescolandosi con altri disgraziati della «ua risma. Vede il nemico avanzare, e l'ospedale distrutto dalle bombe, è risucchiato nell'interno della foresta dai giapponesi in rotta. Rimasto solo, penetra in un villaggio filippino abbandonato, dove decine di cadaveri insepolti sono pasto di avvoltoi e, inorridito. ma più che mai attaccato alla vita, uccide una donna ch'era tornata a prendervi un sacco di sale. Col quale nutrendosi, Tamara raggiunge la coda dell'esercito in fuga e ne divide, nel corso d'una marcia estenuante, la progressiva degradazione, che giunge all'estremo in uno spaventoso episodio di cannibalismo, dove l'uomo, snaturato dalla fame, è in tutto simile a una belva feroce. La rappresentazione realistica della guerra non s'era mai spinta fino a questo pun to di crudezza; e tuttavia Fuo chi nella pianura, come già L'arpa birmana, è più lirico che realistico. Tamura, quel soldato come tanti (non ha l'aristocratica pietas del Mitsuscima dell'altro film), acquista coscienza della propria umanità a misura che il quadro si fa più disumano, e il raggio della ragione batte su lui, isolandolo come un punto di luce. Fosse pur l'ultimo uomo rimasto sulla scena, da lui, e non dalla ferinità che lo circonda, la nostra storia potrebbe ricominciare. Il vero bersaglio del regista non è tanto la guerra quanto il sentimento, forse altrettanto nocivo, della sua ineluttabilità. A differenza degli altri che popolano il film, Tamura non cede su questo punto e muore, crivellato dai partigiani di un villaggio filippino, per così dire « in piedi », con la perfetta sicurezza di possedere un'anima. Così stipato di eccessi, il film ha un'ammirevole e poetica leggerezza di tocco. Il suo « messaggio » risulta tutto affidato allo sguardo del protagonista, che anche nell'atto di spegnersi nella morte, non rinuncia al tentativo di comprendere. Splendidamente guidati gli attori e, su tutti, Ei.ii Funakoshi, l'indimenticabile Tamura. * * (Ideal) — Hanno tanto successo i pittori di « fumetti » ( vedi il « caso » Roy Lichtenstein alla Tate di Londra): perché non dovrebbero averlo anche i registi? Diabolik. un collega in sottordine dei Gordon e dei Superman, è assurto agli onori di protagonista in questo ampio technicolor diretto da Mario Bava, un regista che aveva trovato meritata notorietà attraverso i film del « terrore » ( « La frusta e il corpo » e altri). Qui terrore ce n'ò poco, ma se mai una giocondità tra avventurosa e fantastica in cui rispunta per la finestra il già quasi fugato spirito di James Bond e dei suoi tanti epigoni. Se non che Diabolik non è al servizio segreto di nessuno, viola di continuo la legge anziché difenderla e ha una psicologia sfacciatamente edonistica, fondata sulla cupidigia del denaro e delle belle donne. Anzi poiché il primo gli serve per conquistare le seconde, che poi si riducono a una sola, la bella Eva per cui si è fatto costruire un'alcova elettronica sottoterra (donde le molte spese), abbiatelo per un simpaticone in cui l'esercizio della forza (sempre scompagnata dalla crudeltà) si ammanta delle leggiadre doti dell'acrobata e del trasformista. Abile ma impotente a fronteggiare quello spiritello in tuta e maschera, ritagliato nell'acciaio, l'ispettore Ginko si affida a una banda di gangster che colpiscono il furfante nel suo punto debole, portandogli via Eva e poi usandola come esca. L'uomo che a forza di trucchi era riuscito a impadronirsi di un'auto carica di dieci milioni di dollari, di una favolosa collana di smeraldi e di un lingotto d'oro del peso di venti tonnellate, non si sgomenta per tanto poco: catturato, si finge morto grazie a un filtro misterioso, lascia accostarsi il coltello dell'anatomista, e qui scatta come una molla, filandosela indisturbato. Non ha maggior fortuna una seconda trovata dell'ispettore, dove da esca funziona questa volta un enorme carico d'oro; ma qui Diabolik si esprime a mezzo, lascia l'addentellato per il film che seguirà. Non sempre sospinto da motivi soltanto voluttuari, con un suo piccolo sotto fondo di protesta sociale (contro le tasse, di cui fa saltare in aria gli uffici), questo Diabolik avrà fortuna, perché è un lucido e ben sagomato congegno da baloccarsene i bambini piccoli, i bambini grandi e quei frigidi fanciulloni che sono gl'intellettuali in busca d'inezie, purché alla moda. Con ciò si è implicitamente elogiato il film come prodotto di confezione perfettamente « datato » e conforme alla fortuna, in parte popolare e spontanea, in parte sofistica, della narrativa dei fumetti. Avventura, violenza, buffoneria, erotismo e soprattutto assurdità, vi concorrono nelle dosi giuste e secondo un ritmo di spettacolo spesso tra¬ volgente. Anche il cast b curato: sono intelligentemente svuotati d'ogni espressione e ridotti a pura dinamica sia John Phillip Law con la bella Marisa Meli, sia i comprimari Michel Piccoli, Terry Thomas, Adolfo Celi e Claudio Gora. i ^ 1. p,

Luoghi citati: Filippine, Londra