Gli italiani costruiscono in Nigeria la più grande e audace diga africana

Gli italiani costruiscono in Nigeria la più grande e audace diga africana UN PAESE DOVE IL LAVORO PIEMONTESE È DI CASA Gli italiani costruiscono in Nigeria la più grande e audace diga africana Sull'alto corso del Niger, in mezzo alla savana desolata, è quasi finito il gigantesco sbarramento - Un lago artificiale di 130 chilometri per 15, chiuso da circa nove chilometri di muraglia in terra e cemento, alimenterà dal .prossimo autunno le enormi turbine - Per ospitare i lavoratori, mille italiani e cinquemila nigeriani, a Kainji è sorta dal nulla una città, completa di chiesa e ospedale - La « Impregilo » consegnerà l'opera ultimata in soli quattro anni, malgrado gravi difficoltà ed il dramma dello scorso settembre: il massacro degli operai «ibo» ad opera dei musulmani del Nord (Dal nostro inviato speciale) Kainji (Nigeria), gennaio. E' un vaio d'ore che stiamo volando da Lagos verso il nord, e a bordo del piccolo bimotore ci siamo stancati tutti di guardare il più monotono dei panorami: un'unica piatta distesa di rada boscaglia giallastra, senza traccia di vita. Solo quando il pilota comincia la discesa, ci si accorge di essere sopra una straordinaria, avveniristica città della savana: è un insieme di molti e diversi nuclei abita¬ ti, che a chilometri dì di stanza l'uno dall'altro si perdono fino all'orizzonte lontano dove pigro e possente scorre il Niger, il terzo fiume d'Africa con ì suoi quattromila chilometri, uno dei più grandi del mondo. Il nome di questa località non figura ancora sulle carte geografiche, e già si avvia a diventare famoso nel mondo. Meno di quattro anni addietro, nel marzo del '64, non c'era una Capanna quando con quarantacinque gradi di calore un pugno dì europei si accampò sulla riva del fiume, davanti ad un isolotto chiamato Kainji; e cominciò a costruire baracche, magazzini, impiantì, strade, tutto il necessario per cominciare la lotta e l'imbrigliamento del Niger. Sei settimane dopo, un braccio del fiume era già sbarrato; un anno dopo, si lavorava già col cemento al corpo centrale della diga. Gli uomini erano italiani, alle- prese ancora una volta con un lavoro degno (ed. in cifre assolute, più rilevante) dei tanti ed ormai celebri condotti a termine con successo in tutti i continenti, da Kariba a Dez, da Akosombo a Roseires. Anche la popolosa e ricca Nigeria, indipendente da poco, voleva il suo grande impianto idroelettrico per procurarsi l'energia a buon mercato necessaria al suo sviluppo, ed i suoi consulenti inglesi avevano scelto come ottimamente idoneo questo sito di Kainji: degli ottanta milioni dì sterline (centoquaranta miliardi di lire) necessari alla realizzazione deli-intero progetta, trenta venivano stanziati dal governo di Lagos, trenta venivano ' prestati dalla Éanca Mondiale, venti da vari paesi (Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda). Per la realizzazione dell'opera colossale concorsero i maggiori gruppi mondiali, ma nessuno vinse la Impregno (Impresit - Girala - Lodigiani). Ed ecco, dal marzo del '64, gli italiani mettersi a lavorare alla loro maniera, come matti, sempre in anticipo sui tempi nonostante ogni difficoltà. Per le infrastrutture hanno il vantaggio di poter usufruire delle vecchie imprese nostre in Nigeria, vera aristocrazia del lavoro italiano nel mondo (Boriai e Prono, Astaldi, Cappa ecc.). Nel punto sperduto nell'immensa savana semidesertica bisogna far arrivare uomini e mezzi, e quindi costruire strade e l'aeroporto, e prima che alla diga occorre pensare alla gente che arriva sempre più ' numerosa. Kainji diventa una vera città ìtalo-nìgerìana: nel momento di massima occupazione ci vivono un migliaio di nostri (seicento tra operai e impiegati, con i familiari) e cinquemila africani. Famiglie e gruppi dì scapoli sono sistemati in graziose villette; possono svagarsi in due club con ristoranti e piscine, curarsi in un ospedale con medici ed infermiere italiani e con un'attrezzatura da fare invidia a centri più grossi della penisola, pregare con sacerdoti italiani in una chiesa dalle linee semplici ed eleganti Per i nigeriani, si provvede non solo agli alloggiamenti dei lavoratori d'. oggi, ma anche a risistemare definitivamente quelli che dovranno lasciare i villaggi sommersi dal nuovo lago artificiale a monte della diga (lungo centotrenta chilometri, largo quindici): ed ecco sorgere un villaggio, ancora inabitato, dalle originali strutture tra il futurista ed il sahariano. Capo assoluto di questa singolare comunità euroafricana (e come tale salutato al passaggio dalle sentinelle nigeriane sull'attenti) più che direttore dei lavori, l'ing. Vischi (che ha sovrainteso alla diga di Roseires nel Sudan dopo essere stato a Kariba) mi fa visitare scrupolosamente tutto quanto è. statp -fatto per il benessere dei suoi uomini bianchi o neri. E' stato fatto veramente molto; « Ep* pure — commenta Vischi — la vita rimane dura, il lavoro è pesante, il rischio c'è: per questa diga sono morti sei italiani, diciotto nigeriani ». Mi fermo a parlare con molti dei nostri, sono quasi tutti veterani di simili imprese, scuotono le spalle: « L'importante è lavorare, guadagnare ». Ci sono controllori di altri paesi europei, li guardano con costante stupore: « Mai vista gente simile, guai a parlargli di rinunciare a straordinari o di riposi festivi, badano soltanto a mandare soldi a casa, cento, centocinquanta, duecentomila lire al mese, a costo di privarsi di tutto ». Così anche a Kainji si è in anticipo sul programma, in estate tutto sarà finito, già oggi l'opera immensa appare completa. Da vecchio del mestiere (deve avere poco più di quaranta anni). Vischi sa che ai giornalisti ed ai loro lettori profani, i dati tecnici dicono poco, e semplifica anche troppo. Mi ha portato in cima ed a metà della diga ( « tanto — dice — siamo nella stagione fresca », ci saranno trentacinque gradi, il sole fa bruciare perfino la plastica dell'elmetto): « Vede, abbiamo sbarrato il braccio sinistro del fiume per costruire la diga in terra da quella parte, poi abbiamo fatto lo stesso a destra, ed intanto qui abbiamo tirato su al centro il corpo principale in cemento; dimenticavo, vede là, più lontano, abbiamo costruito il canale a chiuse che consentirà la navigabilità del Niger per altre centinaia di chilometri». Qualche dato, lo annoto io mentre mi sporgo a guardare dall'alto il marrone sporco dell'acqua del Niger che gorgoglia paurosa nelle chiuse sessantacinque metri più in basso. Declino cortesemente l'invito ad una bella passeggiata sotto il sole lungo l'intera diga: ci vorrebbero un paio di ore, perché- al mezzo chilometro in cemento se ne aggiungono, in terra, quasi altri quattro per parte. Nel corpo della, diga vedo montare le quattro gigantesche turbine da SO MW ciascuna, alle quali potranno seguire, quando sembri opportuno, altre otto. Ma, sempre per il profano, l'impressione più profonda si ha soltanto dall'aereo: è dal cielo che sì può ammirare, turbati, questa sterminata opera dell'uomo persa nell'immensità desertica della savana. Vischi ed i suoi collaboratori sono tanto innamorati del loro lavoro quanto laconici, non c'è verso di farli parlare, di fargli dire ad esempio se a Kainji hanno avuto impreviste difficoltà tipo le terribili piene dello Zambesi a Kariba: «Forse — si decidono ad ammettere contando le parole — un brutto momento l'abbiamo passato a fine settembre dell'anno scorso». Anche a Kainji, tra le migliaia di lavoratori africani, si è vissuto il dramma dell'esplodere del tribalismo nigeriano: per notti e notti, gli elementi musulmani del nord si sono scatenati contro gli operai ibo massacrandoli; gli italiani (ai quali, come a tutti i bianchì in Nigeria, non è mai stato torto un capello) hanno dovuto assistere impotenti alla strage, cercando di proteggere qualcuno, di curare i feriti, dì raccogliere i corpi dei morti. Pochi dei nostri non hanno retto all'orrore ed hanno preferito tornare in patria; il grosso è rimasto al suo posto. Dopo qualche giorno il lavoro è ripreso e da allora non è stato più interrotto (di ibo non ce n'è più uno, gli scampati all'eccidio sono tutti fuggiti nel Biafra). Di quelle notti, come della guerra che infuria lontano sulla costa al di là dell'estuario del grande fiume, gli italiani di Kainji non vogliono parlare: sono problemi dei nigeriani, e loro non devono immischiarsi. Fra pochi mesi, partendo, essi lasceranno a questo paese il grande impianto idroelettrico, ed insieme ad esso un canale navigabile, un aeroporto, una rete di.rstrade, un ospedale, una chiesa, una intera città moderna. « Speriamo — si limitano laconicamente a dire — che in autunno, quando girerà la prima turbina, la Nigeria possa festeggiare l'avvenimento nuovamente unita, nuovamente in pace ». Uniamo le nostre speranze a quelle degli uomini di Kainji; ma purtroppo pochi elementi appaiono incoraggianti. Sembrano più fosche che mai le prospettive di un qualche efficace intervento, che metta fine alla guerra dei centomila morti, arresti una fra le più orrende stragi di questi anni. Giovanni Giovannini 250 500 Km. i|!|(l,|i(!!iiiW y^Sokotó BirninKebbi 'ii'i'ti'i ' I lW|l|l|l.1 IT VITI ii m 11 ini ^Kano Q Zuru -0 teinji 0/.V" oBukuru Ji M,na #0- rGashua ,ar Maidugurì 'ORL^S? 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Persone citate: Astaldi, Biafra, Cappa, Di Casa, Giovanni Giovannini, Prono, Vischi