Ricordo di Enrico Sacchetti di Marziano Bernardi

Ricordo di Enrico Sacchetti IL DISEGNATORE MORTO NOVANTENNE NEI GIORNI SCORSI Ricordo di Enrico Sacchetti Per cinquant'anni nessun giornale umoristico italiano potè fare a meno della sua matita d'eccezione - Egli sembrava farsi beffa dell'uomo, ma aveva un sentimento altissimo della dignità artistica Nei giorni di lieto trambusto fra Natale e Capodanno la notizia della morte di Enrico Sacchetti è passata inavvertita. Aveva novant'anni, essendo nato a Roma di famiglia toscana nel 1877. E' un errore morire così vecchi e quando tutti fanno baldoria: a meno di chiamarsi Picasso o press'a poco. Eppure Sacchetti fu uno dei più grandi disegnatori italiani della prima metà del nostro secolo. Fu scrittore dalla prosa ferma, nitida come i tratti della sua matita, concisa e sàpida come quella dei classici della sua terra, ed il suo libro Vita d'artista vinse un premio Bagutta. Fu soprattutto uh uomo dall'intelligenza lucidissima, amara e ironica, di chiaroveggenza spietata, che come pochi capi i problemi dell'arte e il pensare e il sentire degli artisti, e lo dimostrò in un altro dei suoi libri, il più bello, Ar'te lunga, pubblicato da Vallecchi nel 1942, e dedicato alla memoria del suo unico figliuolo, morto l'anno prima combattendo in Albania. (Sposatosi con una violoncellista diplomata a Bruxelles, aveva detto a un amico: « Sento che a me manca ancora qualche cosa, sento che l'albero non è giunto al fiore. Il fiore sarà mio figlio »). Suo padre che, impiegato al ministero della Guerra, aveva seguito la capitale da Firenze a Roma, era stato amico di Fattori, di Signorini, di Borrani, frequentatore di tutti i Macchiaiuoli toscani; e lui stesso disegnava con tanta sicurezza che — ricordava Ugo Ojetti — « l'incisore francese Marcello Desboutins, il quale allora viveva a Bellosguardo sopra Firenze, voleva che lasciasse per l'arte anche l'impiego ». Disegnavano benissimo anche i fratelli di Enrico, sì che questi diceva: « A casa nostra disegnare è come mangiare. Si disegna tutti, e si mancia tutti, purtroppo ». Appunto perché allora l'esercizio dell'arte mal si conciliava coi pasti quotidiani, lo istradarono agli studi tecnici. Matematico eccellente trovò tosto, ritornato a Firenze dopo il servizio militare, un impiego presso un ingegnere; e naturalmente lo lasciò dopo un anno per correr dietro all'arte: prima a Milano, poi a Buenos Aires, quindi a Parigi. Avido di vita, per lui l'arte era curiosità della vita. Il suo disegnare, il suo dipingere ritratti (perché oltre il bianco e nero trattò come ritrattista penetrante e arguto'il guazzo, la tempera, l'o lio), il suo fulmineo fissare, sempre di memoria, un volto, un atteggiamento, un tipo umano visto nel proprio ambiente — spesso l'ambiente dei derelitti, dei rifiutati dall'esistenza — era un continuo interrogare i suoi simili. Si legge in Arte lunga: « Vi siete mai domandato perché le forme hanno sempre eser citato un fascino così grande sull'artista? Ve lo dico io. perché l'artista è precisamente l'uomo che meglio e prima di tutti ha inteso che attraverso le forme si può capire la vita... L'artista, imitandole e rivelandone i meravigliosi rapporti e le affascinanti parentele, le interroga. E le forme rispondono all'artista. E l'artista attraverso un balenare di intuizioni, intravede le norme, le leggi e forse, chissà, anche le ragioni della vita». Cosi a Parigi, dove si fer mò tre anni dal 1911 alla grande guerra, capi subito la donna - francese; e come una farfalla nella teca di un entomologo, la chiuse in un album, Robes et femmes, che forse qualche fortunato ancora possiede. Commentò l'Ojetti nel suo saggio dedicato all'amico, ch'è nel secondo volume dei Ritratti d'artisti italiani, del 1923: « Mostrò di avere imparato d'un colpo tutti i segreti del pariginismo più raffinato e seducente, con una grazia tanto ilare e una malizia tanto esperta che all'ultimo pareva dire: — Care signore, ne volete ancora? Non è molto difficile essere pariginissime ed elegantissi me... ». Ben diverso, e più acre, fu l'album Loro, composto durante la guerra con tipi di ufficiali e soldati austrìaci e tedeschi. Venne poi la serie degli Oratori ^esposta a Venezia nel 1922. Nella sua profonda umanità celava un temperamento di ribelle che da ragazzo lo condusse per qualche giorno in prigione, e divise la cella e il pane con un anarchico. Raccontava: « Fra i vari tipi d'umanità il più basso nella scala dell'evoluzione morale mi parve il carceriere... e mi proposi, una volta libero, di scuotere con tutte le mie forze l'edificio mostruoso della legge». Alla curiosità per l'uomo s'aggiungeva la nausea dell'uomo. Non sorprende allora che da un disegnatore magnifico nascesse spontaneamente un caricaturista d'eccezione: Cavami e Daumier non nacquero diversamente. Perciò Enrico Gianeri (Gec) nella sua completissima Storia della caricatura europea ora edita da Vallecchi ha potuto scrivere: « Enrico Sacchetti domina incontrastato, intramontabile, questo mezzo secolo di caricatura italiana ». Per cinquant'anni infatti nessun giornale umoristico nostrano potè fare a meno della sua matita talvolta crudele, ma che nella satira, nel sarcasmo, persino nel disprezzo recava sempre il segno di un artista che superava la contingenza dell'immagine. Quest'uomo che disegnando pareva farsi beffe del prossimo aveva un sentimento altìssimo della moralità artistica. Sosteneva che « la verità si nasconde dietro la bellezza per difendere la vita»; ma concludeva: «La bellezza non esiste. Esiste solo la fwoltà di veder bello ». Era il suo modo di riconoscersi uomo nell'azione del¬ l'artista. E più che settantenne, scrivendoci una volta a proposito d'una nostra recensione, così si espresse: « Le voglio dire che quello che più mi ha fatto piacere è che ha riconosciuto la mia libertà indipendenza spirituale, ed ha affermato che io ho con servati intatti alcuni dei più alti ideali umani ». Marziano Bernardi