Gli egiziani giustificano Nasser mettendo sotto accusa i militari

Gli egiziani giustificano Nasser mettendo sotto accusa i militari Chi ò più colpevole per la disfatta di giugno? Gli egiziani giustificano Nasser mettendo sotto accusa i militari La catastrofe non ha distrutto la popolarità del dittatore: l'odio della massa è scatenato contro gli ufficiali - Le voci di tradimento non sono finora provate; certo l'inefficienza e l'incapacità degli aiti comandi hanno superato ogni previsione - Esercito ed aviazione, schierati per la guerra, si sono fatti sorprendere con i capi ed un terzo dei piloti in vacanza; molti ufficiali sono scappati dal Sinai mentre i loro uomini combattevano - Ma le responsabilità di Nasser appaiono gravissime, nell'impreparazione militare e nelle contraddittorie iniziative diplomatiche alla vigilia del conflitto (Nostro servizio particolare) Il Cairo, 28 dicembre. L'annuncio del suicidio del maresciallo Amer, in settembre, suscita tra i militanti dell'Unione socialista araba una gioia sorprendente. Gli egiziani, popolo sentimentale e fondamentalmente buono, hanno un rispetto quasi religioso della morte. Due anni prima avevano pianto con eguale convinzione la fine dell'ex re Faruk (morto in esilio) e la scomparsa del suo acerrimo nemico Nahas Pascià, il leader nazionalista che da oltre un decennio viveva a domicilio coatto. Ma Amer non .ra popolare. Strane storie circolavano sul suo conto; e tuttavia sapeva incutere rispetto. Compagno d'armi e intimo di Nasser, aveva rischiato come lui la vita per rovesciare il regime di Faruk e instaurare la repubblica. Inoltre aveva costruito il nuovo esercito egiziano di cui era stato per quindici anni il capo incontestato. Alla gioia cattiva e un po' folle subentra negli attivisti dell'Unione socialista una collera violenta. « Bisogna passarli tutti per le armi, quei porci!» grida uno. E mentre il responsabile del partito, che presiede la seduta, cerca di calmarlo, si alza un operaio e urla: «Dobbiamo far luce sulla disfatta. Amer si è veramente ucciso o l'hanno " suicidato "? Esigiamo la verità. Vogliamo processi pubblici. Bisogna impedire che i responsabili della catastrofe spariscano così, uno dopo l'altro, prima d'aver confessato il loro tradimento! ». Da un capo all'altro del paese, stroncato dal dolore e dall'umiliazione di una sconfitta senza precedenti, l'odio per la casta militare si manifesta in mille modi. Il guidatore di un autobus si ferma di colpo in pieno centro del Cairo per cacciare a pedate un ufficiale confuso tra i passeggeri. Un negoziante di frutta rifiuta di vendere ad un militare: « Andate piuttosto a battervi nel Sinoi! » gli dice con disprezzo. I sopravvissuti dall'inferno del deserto, tornati a casa, hanno parlato. Le loro testimonianze si sono diffuse in un baleno. Mentre i carri armati di Israele avanzavano schiacciandoli, la maggior parte degli ufficiali egiziani si dava alla fuga. I soldati, abbandonati a se stessi, si sono battuti alla disperata, con eroismo, come ha ammesso il gen. Dayan. Hanno visto i loro compagni bruciare come torce sotto una pioggia di napalm. Hanno atteso invano l'intervento dell'aviazione, di cui avevano sentito vantare la potenza. La deficienza degli alti comandi è costata al popolo egiziano — secondo la voce pubblica — 30 mila morti, feriti o dispersi. Un massacro simile non si dimentica facilmente: « Siamo stati traditi, ma ci vendicheremo », mi ha detto un militare rientrato dal Sinai. All'alba del 5 giugno, mentre i piloti d'Israele si preparavano a prendere il volo per bombardare gli aeroporti egiziani,- il comandante in capo dell'aeronautica del Cairo, gen. Sedki Mahmoud, se la spassava in gaia compagnia. Per tutta la notte aveva applaudito, con parecchie decine di ufficiali, la bella Zoheir Zaki, che passa per la migliore danzatrice del ventre dell'intero Egitto. Pure, il gen. Sedki Mahmoud — come tutti'i membri dell'alto comando — era stato avvertito il 2 giugno da Nasser che l'offensiva israeliana sarebbe cominciata al più tardi il 5 con massicce incursioni aeree. Il mònito non aveva impedito a Mahmoud di concedere proprio per quel giorno permessi di 24 ore al trenta per cento dei suoi piloti; ed il gen. Mortagui, comandante delle forze terrestri, era andato a passare il week-end con la moglie ad Ismailia. Colpevole negligenza o alto tradimento? Il gen. Mahmoud era un « agente » americano, come sostenevano i russi fin- dal 1956? Il controspionaggio egiziano era pieno di « Spie » d'Israele? Esisteva una «congiura dei generali » per spingere Nasser alla guerra e travolgerlo con la disfatta? E' naturale che simili ipotesi estreme siano sorte in un popolo disperato e in ginocchio. Ma il fatto più significativo è un altro: dal giorno dell'armistizio (8 giugno) gli egiziani hanno cominciato a discutere e criticare non soltanto questo o quell'aspetto della politica nasseriana, ma le basi stesse i del regime e della « società militare» detentrice del potere. Che l'esercito abbia pesato gravemente sul bilancio dello Stato, che gli alti ufficiali si siano attribuiti i postichiave nell' economia del paese, che abbiano goduto di infiniti privilegi, lo sapevano tutti. Non erano la forza motrice della rivoluzione, non avevano avviato l'Egitto sulla strada del socialismo? Erano i custodi dell'indipendenza nazionale, i guardiani dell'integrità territoriale « di fronte alle mire espansionistiche del nemico israeliano »; inoltre costituivano la « punta di diamante » per la « liberazione di tutti i popoli arabi dall'imperialismo e dallo sfruttamento feudale». Alla realizzazione di questi obbiettivi, il popolo aveva consentito con duro sacrificio: l'esercito costava circa 250 miliardi di lire l'anno. Ed era persino disposto a « chiudere gli occhi » sul contrabbando di valuta o di droga al quale si dedicavano gli ufficiali, ' alcuni dei quali appartenevano all'entourage del ministro della Difesa, colonnello Chams Bodrane. Uomo di fiducia di Amer, Bodrane esercitava un potere occulto la cui ampiezza fu nota all'opinione pubblica solo dopo la sconfitta: silurava sistematicamente i buoni tecnici, intransigenti perché probi, per sostituirli con « amici ». Non è contestabile che questi criteri abbiano ridotto le capacità dell'esercito. Ma non spiegano la paralisi totale che, il 5 giugno, colpisce gli alti comandi. Ci si è lasciati davvero cogliere di sorpresa dall'attacco israeliano? Ci si è voluti vendicare della direzione politica, che ha rifiutato con ostinazione ai militari il vantaggio dell'iniziativa? Per tentare una risposta, bisogna fare un salto indietro, al 22 maggio. Quel giorno Nasser si reca in un avamposto nel Sinai per annunciare il blocco di Akaba. Secondo un testimone oculare, suscita l'entusiasmo dei piloti che lo circondano. « Allora, siamo alla guerra, alla rivincita del '56?» gli domandano. Nasser spiega che, avendo ristabilito la propria sovranità sullo stretto di Tiran, l'Egitto non ha alcun bisogno di aprire le ostilità. Ma, replicano i giovani ufficiali, lasciare l'iniziativa ad Israele rischia di mettere l'esercito egiziano in condizione d'inferiorità. Il Presidente risponde con argomenti diplomatici: se l'Egitto attaccasse si porrebbe dalla parte del torto, apparirebbe agli occhi del mondo come un paese «aggressore». Del resto, i rapporti di forza sono mutati: Israele non oserà prendere l'iniziativa come nel '56. La discussione, a tratti tempestosa, lascia scettici la maggior parte degli ufficiali. Il 25 maggio una missione militare egiziana, guidata dal ministro della Difesa Bodrane, si reca a Mosca. Ha colloqui con Kossighin ed il maresciallo Grecko. I russi, con grande sorpresa dei delegati arabi, criticano Nasser (che nel frattempo ha ammassato 80 mila uomini nel Sinai) e giudicano un « grave errore » il blocco di Akaba. Kossighin raccomanda che il petrolio necessario ad Israele non sia incluso nei « materiali strategici » proibiti ad Akaba; Grecko consiglia il ritiro delle truppe dal deserto. Gli americani formulano lo stesso auspicio. Ammoniscono ripetutamente che la reazione degli Stati Uniti di fronte al tentativo di « modificare lo status quo con la forza delle armi » sarebbe negativa. Sia Johnson (il 26 maggio) che Kossighin (nella notte tra il 26 ed il 27) mettono in guardia Nasser dal compiere gesti sconsiderati. Il presidente egiziano risponde protestando le sue intenzioni pacifiche. Il 28, durante una conferenza- stampa, rende omaggio all'Urss, ma loda in particolare il « tradizionale anti-colonialismo » degli americani e definisce gli Stati Uniti la «più grande potenza del mondo ». Alla domanda se autorizzerebbe il passaggio per il Golfo di Akaba del petrolio destinato ad Israele, risponde evasivamente. Ma intanto re Hussein è corso al Cairo ad abbracciare Nasser (il nemico di ieri) ed a firmare un patto militare. Israele è inquieta; il gen. Dayan entra nel governo come ministro della Difesa. La guerra pare alle porte. All'indomani del rimpasto ministeriale a Tel Aviv, Nasser riceve da certe capitali dell' Occidente (Mosca, curiosamente, sembra all'oscuro di tutto) informazioni dalle quali l'attacco israeliano risulterebbe imminente. Convoca l'inviato di Johnson, Charles Yost, e gli comunica la decisione di inviare a Washington il vice-presidente Zakarya Mohieddin; Humphrey potrà restituire più tardi la visita. E' un tentativo per scongiurare la crisi. Nasser lascia capire che un compromesso è ancora possibile, ed accetta un eventuale ricorso alla Corte intemazionale dell'Aia per dirimere la questione di Akaba. Il 3 giugno Yost torna d'urgenza a Washington. Il 5 gli aerei israeliani scendono in picchiata sugli aero¬ porti della valle del Nilo distruggendo al suolo quasi tutta l'aviazione egiziana. Sotto le pressioni di una parte dell' esercito, Nasser trae le logiche conclusioni della disfatta ed il 9 giugno si dimette. Pochi minuti dopo, milioni di arabi urlano nelle strade il loro odio per l'« imperialismo americano » ed il loro affetto immutato per l'uomo che si è assunta la responsabilità del disastro. E' probabilmente la prima volta nella storia moderna che un capo di Stato è richiamato a furor di popolo al potere dopo una catastrofe nazionale. Eric Rouleau Copyright di « Le Monde » e per l'Italia de « La Stampa »