E' più politica che finanziaria la crisi della sterlina inglese di Alberto Ronchey

E' più politica che finanziaria la crisi della sterlina inglese LA MONETA MINACCIATA DI UN PAESE ANCORA PROSPERO E FORTE E' più politica che finanziaria la crisi della sterlina inglese Due guerre mondiali, la «depressione» del 1931, la perdita dell'impero e dei suoi mercati sono all'origine degli attuali squilibri - Con un'economia insufficiente e scarse materie prime, la Gran Bretagna conta sulle esportazioni; ma molti prodotti, per gli alti costi, non sono abbastanza competitivi - L'Inghilterra ha un tenore di vita, non solo all'interno, al di sopra dei propri mezzi: le forze armate e gli impegni oltremare contribuiscono al deficit - In tre anni Wilson non poteva fare miracoli; il riadattamento è lungo e difficile Roma, novembre. I bambini inglesi d'una volta, al catechismo della domenica, imparavano a cantare così: « Il ricco nel suo castello, - il povero al suo cancello, - Dio 11 ha messi in alto e in basso - e li ha . fatti ricchi e poveri ». Afa oggi succede che l'Inghilterra, il ricco, ha debiti e svaluta la sterlina, mentre un paese come l'Italia ha riserve d'oro e valute per 5 miliardi e 400 milioni di dollari. E' questo che fa meraviglia. Un momento: la crisi iu¬ glese è reale dentro certi limiti. L'Inghilterra non sta al nostro cancello. E' un paese quasi omogeneo, con qualche esigua « sacca di de- I pressione » al Nord, mentre metà dell'Italia è sottosviluppata. Il reddito prò capite inglese è di 1450 dollari, il nostro è di 790 dollari. L'Inghilterra ha 30 mila ospedali e cliniche, noi ne abbiamo la quarta parte. Tuttavia è vero che l'Inghilterra, negli ultimi decenni, è vissuta al di là dei propri mezzi. Joan Robinson, che da vent'anni insegna economia a Cambridge, spiega l'esatta dimensione della crisi in un bel saggio, intitolato L'economia ad una svolta difficile (Ed. it. Einaudi, 1967). E' storia: due guerre e la grande depressione in mezzo, la perdita- dell'impero e dei mercati privilegiati, il declino del carbone, dei tessili del Lancashire, dell'esportazione e della City. Intanto lo sviluppo della popolazione, il pieno impiego postbellico e il boom dei consumi hanno accresciuto l'importazione, già cospicua perché l'Inghilterra non ha risorse naturali e ha poca agricoltura. Al terzo posto nel commercio mondiale, gl'inglesi esportano sempre molto, sono all'avanguardia dell'Europa nella tecnologìa chimica, elettronica, aeronautica; ma non esportano abbastanza per ciò che comprano. Essi vendono macchine (42 per cento dell'esportazione) e altri prodotti industriali; ma comprano la metà dei prodotti agricolo-alinièntari che consumano (27,2 per cento delle importazioni), nxaterie .prime (liti! per cento delle '^pòrìazion^) ecàln^ùsttbiU di petrolio (10,7' per cento). E' un'economia di~yrasformazione} intra'. ' Óltre'' àféoih-'' prore tutte le materie prime tranne il vecchio carbone, è il primo paese importatore di frumento, carne, burro, mangimi, agrumi, lana, legname, tè, tabacco. Insomma, come Alice nel régno della Regina Rossa deve correre più degli altri per stare a pari degli altri, così l'Inghilterra deve esportare più degli altri. Le spese militari sono un fardello enorme per questa economia: in un anno, eguagliano gl'investimenti lordi dell'industria privata. Mentre su dimensioni americane il grosso bilancio militare stimola affari e tecnologia, in Inghilterra limita un potere competitivo che avrebbe bisogno d'ogni risorsa disponibile. Fra le economie di second'ordine, Giappone e Germania di Bonn devono l'iniziale impeto dei loro miracoli ai divieti del riarmo. « Noi invece — ricorda la Robinson — siamo stati costretti a fare a meno di ciò che gli uomini sotto le armi avrebbero potuto produrre, e a sostenere i costi del loro mantenimento all'estero ». Ma tagliare a colpi grossi le spese militari, senza provocare crisi d'equilìbrio politico a est di Suez o in Germania, non è mai stato facile. Sì aggiungano gli aiuti ai paesi sottosviluppati. E si aggiunga che la sterlina è rimasta moneta di riserva internazionale, sebbene abbia perso la potenza che un tempo aveva dietro. Ogni problema valutario s'ingigantisce, perché l'Inghilterra è come una banca: « Se comincia a circolare il sospetto che la banca non possa pagare, si crea il panico ». Questo accade nei rappor- ti col mondo. E all'interno Il quasi pieno impiego ha suscitato tensioni salariali inflazionistiche a cicli costanti. Nelle campagne non c'è riserva di manodopera: l'agricoltura' occupa solo il 3,5 per cento della popolazione, un record assoluto.'I sindacati dell'industria e dei servizi sono potentissimi, impongono pratiche restrittive alle aziende e al mercato del lavoro. I salari sono sempre saliti più in fretta della produttività. Ci sono voluti quindici anni perché la gente incominciasse a capire quanto stretto sia il rapporto fra l'ascesa dei salari monetari e l'aumento dei prezzi. Dice la Robinson: « L'uomo comune, che ama pensare in termini semplici di buono e cattivo, tende a rifiutare l'idea che due buone cose come la piena occupazione e i prezzi stabili siano in conflitto fra loro ». Tutti questi fattori, esterni e interni, si sono connessi in un cìrpolo vizioso, provocando il famoso stop and go, il « tira e molla » fra inflazione e deflazione, sviluppo e stagnazione, attraverso una politica monetaria di freni e strappi. La bassa velocità media dello sviluppo, effetto dello stop and go, ha contribuito all'aumento dei costi: infatti non sopporta senza danno certi aumenti di salari e non offre margini per tentare una «politica dei redditi » abbastanza rigorosa e soddisfacente per i sindacati. Insomma, osserva la Robinson, « uno sviluppo lento rende lo sviluppo ancor più lento ». Questo manuale cambridgèanò ìùìla crisi tUglefè'fu'' scritto nel '66, prima della svalutazione, che la Robinson ^giudicava già Vort favóre, ma come strumento d'efficacia provvisoria. La Robinson non indica rimedi. Non crede molto nel Mec. o nella «politica dei redditi », o nella prospettiva d'un capitalismo più vitale se venisse sciolto dai laburisti. Critica Wilson perché è stato troppo cauto, tortuoso, politico, ma poi confessa: « Mi sembra che la gente di questo paese non abbia voglia di mutamenti radicali ». Alla fine dice solo che l'Inghilterra dev'essere «un piccolo paese neutrale», ben sapendo che « la transizione a un simile orientamento politico non potrebbe essere né rapida né facile», ammesso che fosse un bene. Diverse scuole d'opinione sono più chiare, anche se non più raffinate. Oggi in Inghilterra è popolare, per esempio, la denuncia dell'isolamento forzato « dalle sei nazioni che si sono arrogate il nome d'Europa». Il mercato inglese è angusto: un muro tariffario lo divide dal Mec, gli oceani lo separano da una parte del Commonwealth bianco, i conflitti di principio dal Sudafrica e dalla Rhodesia, i divari di sviluppo storico-economico dal Commonwealth di colore. « Noi — ha detto Lord Plowden — siamo il solo grande paese industriale privo d'un mercato domestico di 100-200 milioni di consumatori, ossia privo delle possibilità che tali condizioni offrono alla produzione di massa e alla specializzazione». Fra l'America, l'Urss, il Mec e il Giappone, l'Inghilterra è un caso a sé. Altri ancora denunciano soprattutto il peso del servizi sociali, dello Stato, del sistema fiscale. Il Times, qualche tempo fa, pubblicò una lettera che domandava: « Avrebbe compiuto Drake il giro del mondo, avrebbero costruito 1 vittoriani la massima potenza commerciale dei loro tempi, se avessero dovuto pagare al fisco 18 scellini e 3 pence per ogni sterlina guadagnata? ». Il signor Big Business degl'inglesi, il famoso Paul Chambers dev'Imperiai Chemical Industries, un giorno mi ripetè la stessa cosa aggiungendo: « Io pagò in tasse personali, con un reddito superiore a 50 mila sterline l'anno, più di 19 scellini su 20 ». E poi vi è chi imputa quasi tutto il male alla sterlina come valuta di riserva, so¬ stenendo che ogni soluzione dipende dalla riforma del sistema monetario internazionale (purché sia realistica e non restauri il gold standard secondo la tesi Rueff-De Gaulle: « Sarebbe un ritorno all'età delle caverne », mi disse il cancelliere dello scacchiere Callaghan). E infine vi è chi giudica urgente anzitutto persuadere la classe operaia sulla necessità' d'un codice di condotta antinflazionistica dei sindacati. Non conviene alla classe operaia salvare la democrazia economica laburista? In effetti è una grande democrazia economica. Il reddito britannico prò capite è pari a quello della Germania e della Francia, ma la parte che in Inghilterra va ai redditi di lavoro è un primato: 74 per cento (contro il 65 per cento, per esempio, della Francia). Ogni questione, in realtà, presenta molti aspetti. Non esiste una causa unica della crisi, e non esiste una formula unica per avviarla a soluzione. Tre anni non potevano bastare a sciogliere il groviglio dei problemi storici: e Wilson, che oggi molti biasimano, mentre merita rispetto, è da tre anni al potere. Egli ha ridotto il deficit della bilancia dei pagamenti, ma non abbastanza; ha tagliato le spese militari, ma non abbastanza; ha persuaso alla «politica dei redditi» molti sindacati, ma non abbastanza; ha corteggiato il Mec e persino De Gaulle, ma non abbastanza. Alla fine ha svalutato la sterlina del 14,3 per cento, ma forse non abbastanza. Eppure Wilson è uomo di Stato. Egli non poteva fare nullq abbastanza, in tre anni, e da ultimo la sterlina fu investita dalla bufera imprevista del Medio Oriente. Ma egli ha spregiudicatezza e nozioni non comuni, quale leader di una opposizione giunta al governo mentre tutto congiurava contro qualsiasi scelta. Egli dura al potere, persìste. Sul frontespizio dei famosi Principi di economia, Alfred Marshall pose il motto Natura non facit saltus. E ora Joan Robinson aggiunge: «La storia economica, giorno per giorno, sembra strisciar^ ad un ritmo insignificante; se si considerano decenni, essa può tuttavia compiere svolte assai brusche». Questa, per l'appunto, sembra la filosofia di Harold Wilson. Alberto Ronchey ì—f