Via senza uscite di Ferdinando Vegas

Via senza uscite Via senza uscite Tra la battaglia di Dak To e 1 bombardamenti su Hanoi la guerra del Vietnam ha subito negli ultimi giorni un aspro rincrudimento da parte degli americani e dei vietnamiti. Questi ultimi, demolendo la base americana di Dak To, hanno dimostrato di essere sempre in fase attiva, capaci di intraprendere anche azioni su scala di guerra vera e propria e non di semplice guerriglia; e così hanno smentito, con i fatti, le dichiarazioni appena emesse a Washington dal generale Westmoreland, secondo il quale l'iniziativa è in mano agli americani. Certamente un episodio, per quanto grave, deve essere valutato nelle sue giuste proporzioni, ricondotto cioè nell'ambito generale d'una guerra quanto mai lunga e complessa. Esso denota tuttavia che gli americani non possono facilmente illudersi di venire a capò della resistenza dei vietnamiti, nonostante l'ingente impegno materiale ed umano: due miliardi e mezzo di dollari al mese e 472 mila uomini inviati a combattere nel Vietnam. Westmoreland, nella sua qualità di comandante in capo, possiede probabilmente informazioni che gli consentono di essere ottimista, al punto di affermare che lo sforzo bellico procede in maniera « molto, molto incoraggiante... Non mi sono mai sentito più incoraggiato nei miei quattro anni di permanenza nel Vietnam ». Nello stesso tempo, però, egli ha chiesto che venga anticipato al più presto l'aumento del corpo di spedizione americano a 525 mila uomini, anziché attendere sino alla metà del '68, come previsto nei piani del Pentagono. Il generale, insomma, sembra preso nella stessa spirale in cui erano avvolti i suoi colleghi francesi durante le guerre in Indocina e d'Algeria: le cose in complesso vanno bene, la vittoria finale è in vista, basta solo ancora un piccolo sfo'rzo, un aumento degli uomini e dei mezzi. Quando poi l'aumento era ottenuto, la situazione rimaneva sostanzialmente immutata e i generali riprendevano il loro ragionamento, finché per i francesi fini come tutti sanno, col ritiro e dall'Indocina e dall'Algeria. E' facile prevedere, questo sì, che l'analogia non sarà portata fino in fondo, ossia che gli americani non saranno buttati a mare e neppure si ritireranno di propria volontà. A parte il fatto che essi dispongono di un potenziale tale che una vittoria vietnamita sul campo, una nuova Dien Bien Phu, appare impensabile, del tutto diversa è la situazione dell'America di Johnson e della Francia di Mendès-Prance o dello stesso De Gaulle. Se la Francia combatteva una battaglia d' retroguardia nella liquidazione d'un vecchio impèro coloniale, l'America invece,'combàtte per l'afférmazione di una nuova politica a raggio globale: la si giudichi pure negativamente, questa politica è però una realtà, che non si può sotto valutare se si vuole interi dere la posizione di Wash ington. A questo punto, è evidente, il discorso sì sposta dal piano militare a quello politico. La domanda fondamentale diviene: l'intervento nel Vietnam, così com'è condotto, è veramente il mezzo migliore per raggiungere il fine che l'America si propone? E' nota la critica di un Lippmann, per citare solo una delle voci più autorevoli, secondo la quale una grande potenza aereo-marittima, per controllare la Cina e imbrigliare il comunismo asiatico, non ha proprio bisogno di aggrapparsi alle sporgenze peninsulari dell'Asia e, peggio ancora, d'impantanarsi in una guerra come quella del Vietnam. Ma Johnson e ì suoi consiglieri continuano a battere questa vìa, anche se essa si rivela sempre più una via senza uscita. Così, non riuscendo a trovare la soluzione nel Sud, intensificano l'escalation al Nord, fino ai bombardamenti sulla città di Hanoi. Ormai l'elenco degli obiettivi da colpire nel Vietnam settentrionale è quasi esaurito, eppure il meccanismo dell'escalation non sembra destinato ad arrestarsi. Se non avviene il peggio, con l'intervento della Cina, quanto meno gli Stati Uniti si trovano anche al Nord nella stessa situazione del Sud, avviati su una direttiva senza sbocco. Lo stesso, naturalmente, si può dire dei vietnamiti, a termini rovesciati: né Hanoi, infatti, né il Vietcong possono prospettarsi altro che una interminabile guerra di logoramento, ammesso che riescano- a durare indefinitamente nella resistenza allo strapotere americano. A raggio relativamente breve, comunque, i vietnamiti ritengono di poter sostenere la lotta sino alle elezioni per la Casa Bianca, fissate al novembre '68. Essi contano sul malumore che sempre più si diffonde in America, contro la guerra, sul ribassò della popolarità di Johnson, sull'eventualità di una sua sconfitta e quindi sulla possibilità di un nuovo presidente, disposto a concludere la guerra sulla base di un compromesso. Dal punto di vista vietnamita il | calcolo è plausibile; ma un anno è lungo, Johnson, può fare scattare ancora l'escalation pur di forzare una soluzione favorevole. La via di uscita dall'impasse vietnamita, se non la si imbocca con la massima prudenza, può anche sboccare nella catastrofe. Ferdinando Vegas Il presidente Johnson parla ai giornalisti (Tel. A. P.)

Persone citate: De Gaulle, Johnson, Lippmann