Italiani nell'Iran di Luciano Curino

Italiani nell'Iran Italiani nell'Iran (Dal nostro inviato speciale) Teheran, novembre. « Qui c'è da guadagnare in fretta — mi diceva un milanese venuto a Teheran per la mostra dell'industria. — Se avessi venti anni di meno, correrei a casa e dirci ai miei quindici operai: ragazzi, andiamo tutti nell'Iran ». Il pae*e va svelto sulla strada dell'industrializzazione. Fabbriche che tre anni fa erano un disordine completo, ora sono assai efficienti. Il ministro dell'economia, Alikhani, ritiene che in meno di dieci anni l'Iran triplicherà il suo progresso. ' Tutti fiutano il « boom » e portano capitali. Gli americani, i tedeschi, gli inglesi che pure non sono troppo ben visti; i paesi dell'Est, la Russia che ha sempre nuove industrie e prestiti da offrire. La Francia da tempo si era presa la parte culturale, ma si accorge che sta perdendo il ruolo di prima donna (l'inglese è a Teheran la seconda lingua, l'America trasmette un suo programma alla televisione iraniana) e si sforza di sostenerlo aprendo scuole, istituti culturali, promettendo finanziamenti e mantenendo la pròmessa. I giapponesi arrivano a frotte, hanno sotto il braccio borse nere, gonfie di documenti. Quell'industriale milanese che rimpiangeva di non avere venti anni di meno mi diceva: « Qui i giapponesi hanno sfondato nel settore dei cavi, delle corde metalliche, dei coassiali, e questa è una produzione nella quale noi siamo maestri. Peccato ». Da due settimane sento a Teheran italiani ripetere accorati che è un peccato che l'Italia resti fuori da questa partita, o punti somme che fanno poco gioco (eccetto che per il petrolio e poche altre imprese, di cui diremo un'altra volta). Dicono: « Stiamo perdendo una grossa occasione. E' davvero un peccato, perché l'Italia si sarebbe trovata a competere in condizioni di vantaggio. Qui c'è schietta simpatia per gli italiani e il loro lavoro ». E' una simpatia nata trent'anni fa, quando iraniani ed italiani costruirono assieme la ferrovia che attraversa il paese,. Lavoravamo nel deserto finché veniva la sera, che portava la nostalgia. Allora dal campo iraniano si alzava una nenia che pareva un interminabile gemito, lugubre e dolente, incomprensibile agli altri, che. però ascoltavano commossi. E quando il cantore taceva, il campo italiano rispondeva con una canzone siciliana o veneta, anch'essa struggente e amara. Cosi avevano incominciato a conoscersi. All'inizio i due gruppi avevano lavorato separati, diffidenti e perfino ostili. Ora lavoravano assieme, si aiutavano a posare le traversine, scoprivano che avevano le stesse mani spaccate dal piccone, anche i rimpianti e "i sogni erano gli stessi. Vi furono morti nella costruzione della transiraniana: furono di una parte e dell'altra, e questo unì più stretti i due gruppi. . Italiani ed iraniani si sono trovati a lavorare assieme in parecchie altre occasioni. Nel cantiere della grande diga di Dez, alla costruzione di case e di strade, alla trivellazione di pozzi petroliferi. E questo ha aumentato la stima e la simpatìa reciproche. Anche fuori dai cantieri si .trova la stessa simpatia. Il prof. Tucci, che dirige l'istituto per il Medio Oriente, gode alto prestigio e, mi dicono, entra a palazzo reale come amico. Lo scultore Greco è stato incaricato di fare la statua allo Sc.à. Con pochi mezzi e" grande passione il prof. Galbicri restaura ad Ispahan meraviglie che si credevano perdute, e l'archeologo Tilia a Persepoli cava dalla sabbia le colonne del palazzo di Serse e le rialza. Cinque giorni fa il primo ministro, il ministro dell'Istruzione e altre personalità del governo iraniano sono andati ad inaugurare nuove aule del la « Scuola italiana ». La cerimonia è stata trasmessa per televisione. Il successo di que sta scuola è l'esempio clamo roso della simpatia e della sti ma di cui godono gli italiani. Dei paesi musulmani, l'Iran è il più tollerante, tuttavia anche qui il cristiano resta un « infedele ». Per qualche fanatico — ce ne sono dappertutto — egli è un « cane d'intedele ». Óra, la scuola di cui si parla è cattolica. Si chiama « Collegio don Bosco ». Ma si preferisce chiamarla «italiana», forse per evitare di pronunciare il nome del santo. E' stata aperta a Teheran dai salesiani nel 1944 e aveva sette allievi. Nessuno credeva che sarebbe durata, ' eccetto i maestri salesiani. Ma si può pensare che nemmeno loro ne fossero troppo convinti. Oggi l'istituto (dalla prima eldmen^ tare alla maturità) ha 1500 posti e le domande superano ogni anno le cinquemila. Per potervi iscrivere i figlioli, i genitori ricorrono alle raccomandazioni, che arrivano dall'alto, dall'altissimo. Tra gli allievi della «scuola italiana» vi sono perciò una trentina di figli di ministri, i figli dei generali e delle « grandi famiglie» non si contano. Direttore della scuola è padre Alfredo Picchioni, bolognese, che ha 46 anni e più della metà li ha vissuti nei paesi arabi e nell'Iran. Parla sette lingue, è professore di filosofia e, se non fosse per il « clergyman », potrebbe es¬ sere scambiato per l'allenatore di una squadra di calcio. E' serafico e dinamico: dopo essere stati mezz'ora con lui ci si sente inutili. Collaborano con padre Picchioni venti salesiani, in maggioranza italiani, poi ci sono gli insegnanti laici. Non è facile governare una scuola dove vi sono 800 islamici, 350 tra cattolici e protestanti, tra caldei e assiri e armeni, 120 ebrei, gli altri appartengono ad altre religioni e vi sono gli zoroastriani adoratori del fuoco e i bahaiti. Eppure, tutto va bene: in questo istituto si è raggiunto un ecumenismo che forse non ha confronti. Padre Picchioni riesce anche a resistere a un gran numero di raccomandazioni — non è sempre facile — e apre la scuola ai ragazzi di tutti i ceti. La classe dirigente del paese, o gran' parte di essa, uscirà da questo istituto, e sono ogni anno di più i ragrzzi che, dopo la maturità, vanno alle università italiane. Tutto questo a qualche cosa servirà, potrebbe valere di più che un investimento industriale. Luciano Curino IL PAESE MUSULMANO IN PIÙ' SAPIDO SVILUPPO

Persone citate: Alfredo Picchioni, Greco, Picchioni, Tilia, Tucci