Abbiamo i migliori urbanisti del mondo ma le nostre città vivono nel disordine

Abbiamo i migliori urbanisti del mondo ma le nostre città vivono nel disordine AMARE CONSTATAZIONI AL CONGRESSO DI ANCONA Abbiamo i migliori urbanisti del mondo ma le nostre città vivono nel disordine (Dal nostro inviato speciale) Ancona, 6 novembre. Dopo gli anarchici, anche gli urbanisti (quasi cinquecento) si sono dati convegno ad Ancona. Coincidenza casuale, che non legittima accostamenti fra due utopie, quella dei libertari e quella dei cultori di una scienza che dovrebbe darci le città ideali. Si è ironizzato, in questi anni, sulla figura dell'urbanista-demiurgo, che ipotizza di risolvere e sanare tutto con i suoi piani; traffico, economia, sviluppo industriale, modi di vivere. Ma un fatto è chiaro: quell'ironia spesso nasconde ostilità a ogni tentativo di mettere ordine. Si preferisce costruire alla rinfusa. Un dato Impressionante: le lottizzazioni accumulate sulla carta attorno alle città e lungo le coste, prima della legge-ponte che impone apposite regole, prevedevano quindici milioni di vani. Quanto basta per cambiare la faccia al Paese in modo del tutto arbitrario, caotico, addossando nuovi costi iperbolici ai comuni dissestati e nuovi costi sociali alla comunità in genere. Già oggi il viaggio da casa all'ufficio e viceversa assorbe un tempo equivalente a più di cento mi¬ lioni di ore di lavoro, in una città come Roma. Si dovrebbe finalmente riflettere su un altro fatto rivelatore: l'urbanistica, che da noi sembra utopia, ha dato, in condizioni spesso più difficili delle nostre, le new towns agli inglesi e agli americani, le città del futuro della California, la ricostruzione del centro di Varsavia, il perfetto equilibrio di strade di scorrimento e di parchi, di quartieri residenziali e industriali, di centri storici e di zone portuali, che tutti ammiriamo ad Amsterdam, Rotterdam, Stoccolma. Fra cinque anni le città italiane saranno paralizzate, ma ci limitiamo a dirlo, senza attuare alcun plano. Al Convegno di Ancona, che si è chiuso oggi, gli urbanisti hanno tentato analisi e hanno fatto severe autocritiche, mostrandosi consci dell'abisso che separa le impostazioni teoriche, spesso eccellenti, dall'attuazione pratica sul terreno. Ne hanno parlato molti e illustri, da Samoli a a Piccinato, da Quaroni a Doglio, con largo contributo della « nuova ondata » ( Tutino, Borlanda, Boracchia, Gabrielli, Lenci, Romano, Alberto Samonà, Trincanato, per citare alcuni). L'autocritica conteneva una domanda implicita: perché le nostre città restano condannate ad un umiliante stato di disordine che ci fa guardare agli esempi stranieri come a modelli quasi leggendari? Immaturità sociale e politica non possono spiegare tutto. Da almeno dieci anni si progettano e si trascinano piani di città, piani intercomunali e regionali, senza riuscire a concluderli oppure avendo risultati deludenti. I casi di Milano e di Bologna (piani intercomunali'finiti nel compromesso), di Genova (revisione di un piano regolatore pazzesco, ben presto arenata) illuminano una situazione di crisi che ha avuto ed ha proiezioni drammatiche a Roma, a Napoli, a Palermo, lungo le coste della penisola e delle isole. Nelle nostre città non si circola, non si respira, si pagano costi altissimi e sproporzionati, non si ha spazio per le scuòle e per i servizi pubblici. I centri storici vanno in rovina. Abbiamo costruito inumane appendici di città che stupiscono per la loro gratuita desolazione: la Falcherà a Torino, Tiburtino a Roma, sono gli esempi di nuovi quartieri popolari il cui parallelo all'estero si trova nelle felici città verdi ai margini di Amsterdam, di Oslo, di Stoccolma. Eppure i nostri urbanisti sono maestri riconosciuti in tutto il mondo; hanno insegnato anche ai pianificatori delle mitiche città scandinave (a Oslo, tempo addietro, il progettista di una nuova città satellite mi diceva di aver fatto i suoi studi a Venezia). C'è uno sfasamento fra teoria e applicazione dei piani regolatori che preoccupa come una malattia nazionale. Al Convegno si è tentata una diagnosi: l'urbanista è spesso impreparato ad affrontare le complesse situazioni in cui cade il suo piano (interessi solidificati da tempo, ostacoli giuridici ed economici, abitudine al disordine), e gli amministratori locali diffidano del nuovo, per una diffusa impreparazione culturale. L'esigenza di dare all'urbanistica un rilancio di idee e di sperimentazioni, per una maggiore coerenza di indirizzi, ha fruttato, dopo le severe autocritiche, una discussione sulla « carta dell'urbanistica» (caldeggiata anche dal ministro Mancini in una lettera letta l'altro giorno al Convegno dal sottosegretario De Cocci). L'architetto Gabrielli ha presentato la relazione: si punta ad un aggiornamento della «Carta d'Ate¬ ne», che più di trent'anni fa venne proposta da Le Corbusier come una dichiarazione di principio della nuova scienza. « Abitare, circolare, lavorare, coltivare il corpo e lo spirito » erano i quattro canoni che Le Corbusier offriva per la città moderna Ora si vuol rinnovare i principi e concretarli, dare un carattere più preciso all'urbanistica come scienza e co me applicazione. Mario Fazio