Una legge «savissima» rovinò la Sardegna di Gigi Ghirotti

Una legge «savissima» rovinò la Sardegna DIFFICILE CAPIRE L'ISOLA Una legge «savissima» rovinò la Sardegna Bene è che il Parlamento mandi a indagare sul brigantaggio in Sardegna, e meglio ancora farà se gli onorevoli inquirenti avranno facoltà di estendere é di approfondire la loro ricerca. Dietro è sotto le manifestazioni crudeli e . dissennate della criminalità isolana c'è un mondo da scoprire. Sono quasi tre secoli che l'isola può, a pieno diritto, dirsi italiana; c tuttavia, quanti fra gli italiani che, in questi ultimi due decenni, hanno avuto occasione di frequentarla per turismo o per affari la conoscono davvero? . A metà del secolo scorso si disse che il Cavour si disponesse a cederla alla Frància. Vera o falsa che fosse- la voce, ne rimase anche dopo un senso di sospettò e di imbarazzo reciproco. Da un lato l'Italia di terraferma poco si interessava della -Sardegna,' dall'altro la Sardegna rimproverava all'Italia sgarbi e trascuratezze di tipo coloniale, quasi « il continente > si ricordasse dei sardi soltanto in occasioni di guerre e di riscossioni fiscali. In realtà, gli stranieri ben più che gli italiani hanno cercato di afferrare il senso riposto della storia, della lingua, delle tradizioni e della cultura sarda. £ l'isola, il più antico lembo di terra emersa nel nostro emisfero, ha aperto il cifrario oscuro della sua civiltà agli stranieri più che agli italiani. In un ponderoso e pregevole voi iurte, Giuseppe Dessi raccoglie ora ventiquattro scritti di autori italiani e stranieri sulla Sardegna: una Summa che gioverà non soltanto agli onorevoli che faranno parte della commissione, di inchiesta, ma a quanti vorranno andare o ritornare in Sardegna 'con un'idea 'n'rerlò' vaga e meno distorta di quella -che si sono potuti formare o nel tempo delle loro vacanze nell'isola, oppure leggendo le cronache criminali che hanno dolorosamente lanciato la Sardegna sulla ribalta nazionale. II volume (« Scoperta della Sardegna >, edizioni II Politilo) è un'antologia di «classici », che comprende una grande varietà di contributi: sulla religione, sulla lingua, sull'agricoltura, sull'abbigliamento, sulla storia e sul diritto, sui costumi, sui paesaggi, sulle miniere, sulla pastorizia. Letterati, economisti, scienziati, viaggiatori di tutti i tempi e di tutte le scuole, da Carlo Cattaneo a D. H. Lawrence, da M. L. Wagner a Paolo Mantegazza, fino ai più recenti (Pancrazi, Vittorini, Cagnetta, Giacobbe, soltanto per citare gli italiani) hanno tev stimoniato la presenza nell'isola di una civiltà originale, radicata nei millenni, ostica e addirittura ostile a tutte le forme di « acculturazione » che via via, nei secoli, sono state sperimentate da conquistatori e dominatori. Il fatto è che nell'isola sono maturate esperienze che non hanno nulla o quasi in comune con l'esperienza storica di tutto il resto d'Europa. Per esempio, in Sardegna vigeva, fino ai primi decenni del secolo scorso, la comunità dei beni rurali. Ogni paese, ogni villaggio, era concepito come l'epicentro d'un mondo a sé stante: la terra era affidata per un terzo ai contadini, per due terzi ai pastori, c d'anno in anno avveniva la rotazione. Tutto ciò durò millenni, finché nel 1820 il re di Sardegna, Vittorio Emanuele I, con il suo editto detto ideile chiudende » stabilì la fine del sistema comunitario: ogni possessore di terra, privato o comune, ebbe il diritto di recingere il terreno e di diventarne proprietario. La legge, che nei propositi avrebbe dovuto promuovere il « rifiorimento > dell'agricoltura mediante la . formazione della proprietà privata, « giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e ai potenti, i quali non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni d'ogni natura, senza idea di migliorare il sistema agrario, ma al solo oggetto di far pagare e caro prezzo dai contadini e dai pastori la facoltà di seminarvi o il diritto di pascolare i loro armenti*. Cosi il viceré in una sua lettera del 1832 nel riferire Io stato di caos in cui l'isola era stata gettata da quella « legge savissima ». Può apparire strano, ma il trauma causato da quell'editto è ancor oggi vivo; anzi, proprio dal senso di umiliazione e di frustrazione del pastore, da quel suo sentirsi tagliato fuori dalla società e dannato a ramingare con le sue greggi, nascono e si perpetuano quegli stimoli alla rivolta e alla vendetta sociale che sono alla r.adicc dell'odierna inquietudine pastorale; lesto di mano, considera il furto un metodo per farsi giustizia da sé; avvezzo a pagare sempre e tutto, e a caro prezzo, ciò che gli serve alla vita, come potremo meravigliarci se il pastore manifesta anche in forme criminali la sua insofferenza e la sua protesta verso la società dei redditi sicuri, delle ricchezze consolidate, dei beni velocemente prodotti, moltiplicati e offerti al consumo? L'antologia che Giuseppe Dessi ha ordinato è un'introduzione dotta e accorata alla Sardegna e ai suoi molti enigmi. Perché l'isola non è di pastori soltanto: è un quasicontinente,, articolato e complesso, che si chiude scontrosamente agli improvvisatori, ai molti, moltissimi, che pretendono di saperla lunga soltanto per avervi soggiornato qualche settimana o qualche mese. La si deve girare e rigirare mille volte, penetrare nella filosofìa della sua gente: una filosofia distillata dai millenni trascorsi nella solitudine, tra le malattie, l'ira degli elementi, l'aridità del isuolp, jé schioppettate dei briganti e, l'incomprensione dei nuovi arrivati. Nel suo saggio introduttivo Giuseppe Dessi non dà la « chiave » per entrare nel nuraghe. Anzi, lascia intendere che una « chiave » vera e propria non c'è. Forse è stolto persino mettersi a cercarla: « Sono geloso della mia terra, della mia Isola, e odio tutto ciò che può renderla volgare ». La Sardegna, egli ricorda, fu malcompresa fin dai tempi più antichi; Cicerone la trattò male, Dante la ingiuriò, il Tassoni la chiamò terra « ricca di cacio e di uomini bugiardi-». E''fin troppo evidente che tra l'isola e il continente s'è formato un malinteso: che esso sia vecchio di secoli, non toglie nulla al fatto che di malinteso si tratti e che la Sardegna vada tutta riscoperta e riguadagnata, metro per metro, pietra per pietra, alla conoscenza e alla coscienza civile del nostro secolo. Per mettersi a quest'impresa non c'è che uno sforzo da fare: dissolvere il malinteso, ricominciare tutto da capo. Non è fatica da poco, I ventiquattro « classici » raccolti da Giuseppe Dessi ci possono dare una mano. Gigi Ghirotti