Goldoni nelle «Memorie» recita la sua esistenza

Goldoni nelle «Memorie» recita la sua esistenza Ut» gran tibvo fuori dei tempo Goldoni nelle «Memorie» recita la sua esistenza Delle c Memorie » che il Goldoni scrisse in francese e pubblicò a Parigi nel 1787 — quando, ottantenne, viveva oltralpe da un quarto di secolo — gli italiani di media cultura conoscono e rammentano un solo episodio: quello del suo viaggio, via mare, da Rimini a Chioggia sulla barca dei commedianti. E l'episodio è davvero memorabile. Tre giorni di navigazione sull'Adriatico in bonaccia, col Goldoni quattordicenne studentello che scopre il mondo imbrancandosi in una compagnia di attori girovaghi e assapora ogni minimo avvenimento della scappata con golosa emozione: la beata spensieratezza dei canti e le gran mangiate di maccher roni, il trambusto per il gatto della « prima amorosa » — che schizza via infuriato dalla gabbia, corre da tutte le parti, finisce in mare mentre la padrona lancia isteriche disperatissime grida, subito interrotte dal riso — e il breve capogiro per le grazie della « servetta ». Né occorre insistere su questo capogiro — «;'o la guardavo a tutt'occhi, ed ella esercitava su di me un fascino singolare » — per scoprire nella gran suggestione del brano una sorta di profezia dell'arte goldoniana, che appunto nel creare immagini di « servette » — di camerierine pettegole e sagge, estrose e assennate — mostrerà uno degli aspetti più lieti. Non occorre, perché tutto il pezzo è bello e addirittura commuove se rammentandolo scritto in vecchiaia, sul filo di ricordi lontani, vi senti il soffio della nostalgia. La questione, se mai, è un'altra; e diventa più che mai attuale ora che abbiamo davanti le Memorie goldoniane, nella nuova pregevolissima edizione dei it Millenni » di Einaudi. Questa: perché l'autobiografia del nostro maggior commediografo vien ricordata dal nostro pubblico solo per un episodio? e perché la bellezza dell'episodio non è servita a far conoscere anche altre parti dell'opera? Accettabile o no, la risposta più vicina agli umori correnti nasce dal confronto con altre opere dello stesso genere. La Vita del Cellini, per esempio; o quella, meglio ancora, dell'Alfieri. Lì, vien da dire, insieme con lo scrittore che ricorda hai l'uomo che si confessa, che dà alla pagina il calore immediato delle sue passioni, che nel momento di ricordare annulla ogni distanza fra passato e presente: nelle sue Memorie, invece, il Goldoni è un'immagine riflessa; per trovare l'uomo devi spogliarlo delle vesti del personaggio, né sempre ci riesci. Ma l'opinione, più che sbagliata, è una di quelle mezze verità che spesso confondono le idee peggio di un errore. E rispecchia, l'insoddisfazione di chi, conoscendo l'esistenza di quest'uomo, ne cerca inutilmente nel libro la traccia dei momenti più drammatici. Pensiamo, come primo esempio, a quand'egli lasciò Venezia, nel 1762. Al culmine della fama e nel pieno della maturità, ma osteggiato da rivali biliosi come Carlo Gozzi o meschini come l'abate Chiari, egli dovette accettare la proposta di trasferirsi a Parigi, e di andare a lavorare per la « Comédie Italienne », non resistendo più al disagio delle polemiche. Abbandonare la nativa Venezia, andar lontano dalle voci e dai luoghi che tante volte gli avevan colpito la fantasia, non fu gran che diverso da un esilio. Ma sentitene il ricordo, senza palpiti di indignazione o sfoghi di pena, e mosso da una reticenza che non esita a travisare la realtà: « ... essendo cessate le critiche contro di me, godevo di una tranquillità deliziosa » ma « temevo i giorni duri della vecchiezza, quando le forze diminuiscono e i bisogni crescono » E l'esempio bas'te-ei - se un altro — più grave — non ci insegnasse, per assurdo, la giusta prospettiva di queste Memorie. Che nella parte finale danno l'immagine di un vec¬ mnm chio sereno, contento per la fama raggiunta anche sulle scene parigine, grato della pensione annua di franchi quattromila assegnatagli per i servizi di insegnante di italiano alle figlie di Luigi XV. Le parole conclusive han così l'arguzia ridente dell'uomo felice, che non ignora il male ma ha imparato l'arte di voltargli le spalle. Chi volesse criticarmi, dice, illudendosi di farmi un dispiacere, « perderebbe il suo tempo. Io sono nato pacifico, ho sempre conservato il mio sangue freddo; alla mia età non leggo che libri divertenti*. Né, certo, poteva essere indovino. Non poteva, cioè, prevedere che la Convenzione repubblicana, instaurata con la Rivoluzione del 1789, gli avrebbe tolto il regio vitalizio, riducendolo in povertà. Ancor meno prevedibile, poi, l'ironia feroce del destino: per cui il fratello di Andrea Chénier sarebbe riuscito a fargli ridar la pensione il 6 febbraio 1793, all'indomani della sua morte. Ma una previsione era sì facile, e agitava le speranze o i timori di tutta la Francia mentre il Goldoni concludeva il suo libro: la fine imminente della vecchia società. E lui solo — almeno nel giro degli scrittori —■ non mostrò di accorgersene. Indifferenza, allora, ai margini dell'assurdo? Cecità di conservatore, che finge di non vedere per restar tranquillo? Le ipotesi, in ogni caso, ricadrebbero anche sull'uomo Goldoni; non più, e non soltanto, sul Goldoni artista. Ed entrambi ne verrebbero schiacciati se proprio di qui, per l'assurdo che dicevamo, non nascesse la prospettiva di una lettura diversa, consapevole di quello che è inutile cercare nelle Memorie perché non c'è. Ecco, allora, le Memorie come gran libro fuori della storia, estraneo alle verità del tempo non meno che ai problemi più intimi dello scrittore che non giudica, non si confessa, non mira a lasciarci un autoritratto scrupoloso: gode, bensì, a immaginare la recita della sua esistenza. Imboccata questa via, il libro diventa amico. E il personaggio ci sorride già dalle primissime battute: «Mia madre era una bella bruna; zoppicava un poco, ma era piena di spirito ». Il nonno « era un brav'uomo, ma non voleva saperne d'economie ». Poi ci fu un tracollo e « Per maggior sfortuna, mia madre diede alla luce un altro bambino (...). Mio padre si trovò in grave imbarazzo; ma poiché non era nella sua indole lasciarsi accasciare dal peso di tristi pensieri, decise di fare un viaggio a Roma per distrarsi (...). Vi rimase quattro anni (...) si laureò in medicina (...) e mettendo a profitto la sua abilità nell'evitare le malattie (...) divenne presto di moda ». Quanto ci sia di vero, non ci interessa. Questa non è voce di testimone: è voce di chi parla e sorride. Né pretende di scambiare la luce del giorno con quella di un reale o ideale palcoscenico: ma sa che dietro le quinte non c'è che buio e silenzio. Ferdinando Giannessi

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