I meriti disconosciuti del generale Menabrea

I meriti disconosciuti del generale Menabrea NEL CENTENARIO DI MENTANA I meriti disconosciuti del generale Menabrea Siamo al centenario di Villa Glori e di Mentana; dell'ultima impresa garibaldina in Italia, che un po' offuscò l'astro del condottiero, non per l'immancabile sconfitta, ma per gli episodi di scarsa disciplina che la contrassegnarono; sicché fu bene seguisse poi a quattro anni di distanza la campagna di Francia a chiudere quella epopea. Come di dovere, saranno rievocate le figure dei Cairoli, di Giuditta Tavani Arquati, dei partecipanti ai tentativi di insurrezione romana; con una rievocazione che la lontananza fatalmente rende scolorita (quando io ero bambino molte signore portavano il nome Mentana, che era una data di nascita impressa, ma diceva l'eco che aveva avuto in Italia l'episodio; ed ancora vivevano in non avanzatissima età i superstiti repubblicani romani, che erano dovuti fuggire esuli dopo il tentativo insurrezionale subito soffocato). Ma credo nessuno ricorderà il nome del soldato savoiardo che nell'ora di Mentana rese un grande servizio alla monarchia, assumendo la responsabilità del governo, prendendo su di sé il peso della impopolarità, ristabilendo l'ordine senza che si avessero le dure repressioni che rendono particolarmente amaro l'altro episodio di Aspromonte. Pesante responsabilità del governo Rattazzi di avere consentito, di fatto appoggiato, il tentativo garibaldino d'invadere lo Stato pontificio. La lezione di Aspromonte non aveva giovato a Rattazzi. Eppure se nel '62, al tempo di Aspromonte, era ancora dato illudersi che l'epoca dei miracoli, delle annessioni pacifiche, non fosse chiusa, nel '67 quella illusione non era più consentita. C'era la Convenzione del '64 con la Francia, con cui l'Italia s'impegnava di non permettere partissero dal suo territorio attacchi allo Stato della Chiesa; nessuna persona sensata poteva illudersi che a Parigi si sarebbe accettata una aperta violazione del trattato; comunque Nigra nei suoi dispacci ammoniva. A suo tempo Lamaunora non era neppure riuscito ad ottenere dalla Francia l'assicurazione di un non intervento nel caso di spontanea sollevazione dei romani. Quando si dclinea la spedizione garibaldina, Parigi prende subito posizione netta; la Convenzione di settembre era chiara; il ritiro del corpo di occupazione francese da Roma aveva come contrappeso l'impegno italiano a non consentire tentativi contro lo Stato del Papa; l'invasione della Toscana e dall'Umbria c'è; il corpo francese ritorna. Rattazzi si dimette; Cialdini sarebbe disposto a prendere in mano la situazione a condizione che la Francia non si muovesse; dovrebbero essere truppe italiane a sgominare i garibaldini, ad assicurare al Papa il suo Stato. Vorrebbe attuare quel che Gioberti aveva pensato all'inizio del '49: i prìncipi italiani garantiti contro i rivoluzionari da un intervento delle forze sabaude, che escluda quello di milizie austriache o francesi. Ma Cialdini pensa che, se giungono i francesi, l'onore nazionale non consenta di abbandonare Garibaldi alle loro sanzioni. Si affronti ogni rischio purché l'onore sia salvo. Naturalmente dalla sinistra si vorrebbe guerra; alle armi francesi si oppongono le armi italiane. Sarebbe l'Unità disfatta dopo sei anni da che è stata raggiunta. Si parla intanto di abdicazione del re. Ma Vittorio Emanuele non è uomo proclive alle rinunce, e Casa Savoia ha ancora uomini disposti a servirla ad ogni costo: affrontando rischi, sacrificando la loro persona, consci che poi un alone d'impopolarità accompagnerà il loro nome sino alla morte. Luigi Federico Menabrea nel '67 ha cinquantotto anni; nato a Chambéry da padre della Valle d'Aosta, piemontese di adozione — per molti anni operoso consigliere comunale di'Torino — è stato un ufficiale del Genio molto dedito agli studi (ancor oggi nella teoria della elasticità si menziona un teorema di Menabrea): nel '59 ha diretto la inondazione della piana tra la Dora e la Sesia volta ad ostacolare l'avanzata austriaca (venti anni appresso gli sarà conferito il titolo di marchese di Val Dora) ed ha avuto parte negli assedii di Gaeta e di Ancona. Il collegio di Verrès lo mandò alla Camera per la prima legislatura; deputato fino al '60, poi senatore. Cattolico fervente, votò contro le leggi Siccardi, dovendo per ciò dimettersi dall'incarico di primo ufficiale agli Esteri. E' ora primo aiutante di campo del re. Ed a questo, escludendo l'assurda resistenza alle armi francesi, si rivolge Vittorio Emanuele nella stretta angosciosa delle dimissioni di Rattazzi, della penetrazione garibaldina, del fermo contegno francese. Senatore, aiutante di campo, già oppositore di Cavour dai banchi della destra, Menabrea è l'uomo che sembra impersonare un governo esercitato dal re per delega appena larvata, prescindendo dal Parlamento. Nel Gabinetto che forma immediatamente con soli sei ministri, nessuna figura di grande rilievo; tre dei ministri sono senatori; uno, il Cambray-Digny, ha anche un'altra carica di corte; mai dal '48 sono.-stati.,così offesi gli usi parlamentari. Ed il governo non può impedire nulla di quel che segue a Roma, non può ottenere di collaborare con il corpo di spedizione francese (solo il cameratismo degli ufficiali francesi fa sì che non si oppongano che qualche battaglione italiano occupi per pochissimi giorni qualche comunello dello Stato pontificio prossimo alla frontiera: una mera parvenza di collaborazione). Ma l'ordine è mantenuto; nessun timore di colpi di Stato; il re può rivolgere uno di quei proclami con cui suole comunicare con il suo popolo, dicendo non poter essere sua la bandiera di quei volontari garibaldini in cui era scritto guerra alla religione (nelle accese discussioni parlamentari che seguiranno, questo dato verrà contestato). Concitate sedute in cui Menabrea, pur non fornito di grandi virtù oratorie, si batte per tre giorni, avendo anche parole dure per Rattazzi ed il suo gruppo. L'ordine del giornp della destra favorevole al governo è respinto, il ministero si dimette, ma Menabrea riottiene l'incarico, e ^resterà a capo del governo fino al dicembre del '69. Saranno anni duri, quelli dei Giambi ed epodi di Carducci, che dicono la concitazione delle sinistre, pur degli uomini che nel '59 aderirono alla monarchia; ma senza che si delineino più crisi così acute come quelle di Aspromonte e Mentana, senza che appaiano in pericolo le sorti dell'unità o quelle della dinastia. Menabrea sarà poi ambasciatore a Londra ed a Parigi; riceverà qualche sgarbo (nell'88 è chiamato da Parigi a Torino per essere testimone alle nozze della principessa Letizia Bonaparte con lo zio duca d'Aosta, e poi dispensato perché il padre della sposa principe Gerolamo vuole un testimone da lui scelto). Morrà, ormai un sopravvissuto, quasi novantenne. Non si può scorgere in Menabrea un grande uomo di Stato. Dopo D'Azeglio, cui si deve la salvezza del regime costituzionale, e Cavour, il Risorgimento non dà più figure di statisti di primo piano. Ma tra i politici del tempo diversi ebbero visuali più ampie di Menabrea, maggior passione per l'agone parlamentare. Menabrea fu l'uomo adatto per un dato momento; per il passaggio attraverso un lungo cammino spinoso. Fu il buon soldato che accetta un compito ingrato e lo assolve, battendosi in Parlamento come sul campo. Viene naturale pensare a meno remote crisi della monarchia, maggio 1915, ottobre 1922; il raffronto torna tutto a vantaggio dei morti più lontani. A. C. Jemolo