Milano si è liberata da un incubo la folla grida: «Vogliamo giustizia» di Remo Lugli

Milano si è liberata da un incubo la folla grida: «Vogliamo giustizia» Milano si è liberata da un incubo la folla grida: «Vogliamo giustizia» Si temeva che i banditi braccati spargessero altro sangue - Appena saputo dell'arresto, centinaia di persone si radunano davanti alla caserma dei carabinieri in via Moscova per attendere l'arrivo di Cavallero e Notarnicola - A sera la gente blocca il traffico, si fa minacciosa: «Ci vuole la forca», «Fucilateli» - Si teme un linciaggio: per misura precauzionale viene ritardato il trasferimento dei due criminali da Alessandria a Milano - Wilma Oddone, la figlia del camionista ucciso, mormora: «Non avremo mai conforto» - La madre, malata di cuore, aggiunge: «Sono mostri, anche se uno di loro fosse mio figlio, non lo perdonerei mai» (Dal nostro inviato speciale) Milano, 3 ottobre. La misura esatta dell'incubo, della angoscia, della paura che hanno pesato su Milano in questi giorni, dopo la sanguinosa sparatoria dei banditi avvenuta lunedi della scorsa settimana, si è avuta oggi con la diffusione della notizia della cattura di Piero Cavallero e Sante Notarnicola. Nei giorni scorsi la gente seguiva i giornali, continuava a commentare il tragico episodio; ma ne parlava quasi sottovoce, con la fatica che si prova ad affrontare gli argomenti che gravano troppo sul cuore. Stamattina, dopo il primo annuncio della radio e dopo l'uscita delle prime edizioni dei giornali della sera, Milano si è animata d'improvviso. Nel giro di un paio d'ore tutti sapevano la grande notizia, anche coloro che non avevano letto i giornali o udito la radio. Perché l'attenzione dei milanesi si è polarizzata tutta su questo argomento: chi sapeva parlava, lo annunciava agli amici e ai conoscenti. «Li hanno presi, li hanno presi » si sentiva ripetere per strada. DI bocca in bocca il tanto atteso annuncio passava, correva, dava alla città un fremito di commozione, di gioia. I volti erano sorridenti: «Finalmente», «Meno male », « E' finita » si sentiva sospirare. E da varie parti si udivano anche discorsi che più' chiaramente indicavano la tensione dei giorni scorsi, che confessavano la paura diffusa e taciuta dai più: « C'era da aspettarsi di tutto da quei criminali; qualsiasi altro gesto disperato: una nuova rapina con altre sparatorie. Se avevano disgeminato morte e sangue nella loro prima fuga, quando credevano ancora di poter sfuggire alla condanna, ora che sapevano di non avere più scampo, potevano moltiplicare la loro ferocia, usare i mitra sin dal primo momento della azione ». Questo era il succo dei discorsi che da ogni parte si udivano oggi. E la paura che stringeva il cuore ai milanesi come ai torinesi non era certo infondata. Ci si è trovati di fronte a banditi sanguinari che rimarranno memorabili nella storia del brigantaggio. Accorre la gente Già prima di mezzogiorno davanti alla caserma dei carabinieri di via Moscova ha incominciato a radunarsi gente. Sperava di vedere arrivare da Alessandria i due mostri. I curiosi dapprima stavano sul marciapiede, poi le file si sono ingrossate, sono diventate folla. I vigili urbani hanno cercato di far sgombrare, ma inutilmente. Uomini e donne si ammassavano per non invadere la corsia stradale, ci sono riusciti fino alle 18,30; poi, con la chiusura di uffici, laboratori e fabbriche, la folla ha straripato anche sulla strada, il traffico subiva una strozzatura, colonne di auto si allungavano da una parte e dall'altra. La folla si eccitava coi discorsi della attesa, non aveva più -oltanto curiosità, a tratti si alzavano voci minacciose: « Ci vuole la forca », « Perché non li fucilano? ». C'era aria di linciaggio. Il comando della legione dei carabinieri non poteva ignorarla e d'altra parte non poteva mettersi ad usare mezzi coercitivi per mandar via quella massa di gente in attesa. Ha preferito mettersi in contatto con i carabinieri di Alessandria per far differire la partenza dei criminali da quella città, onde evitare spiacevoli incidenti davanti a questa caserma. Anche all'uscita dall'autostrada da Alessandria per tutta la giornata c'è stata folla in attesa di veder passare la macchina dei carabinieri con a bordo i rapinatori. TJna Milano elettrizzata e gioiosa, si è detto; ma, purtroppo, in questa gioia diffusa ci sono le isole di dolore; i parenti delle vittime, i feriti. Che cosa ha rappresentato per i congiunti dei morti, l'annuncio della cattura degli ultimi due feroci rapinatori? Wilma Oddone, la figlia ventiduenne del camionista ucciso su un autocarro in viale Pisa da un colpo di pistola, ci riceve nel suo appartamento di via Curiel 16 a San Donato Milanese. Bionda, pallida, gli occhi ancora gonfi per il lungo pianto, parla a bassa voce, con fatica. Il giorno dei funerali non aveva saputo contenere il proprio disperato dolore, si era messa a gridare: «Il mìo papà, me l'hanno ucciso, me l'hanno ucciso y; erano stati costretti a portarla fuori dalla chiesa. Ora dice: «La mamma ed io abbiamo appreso la notizia alle 10, da una vicina che aveva sentito la radio. Ci siamo sentite di nuovo sconvolgere l'animo, non so dire cos'era, comunque non sollievo, non possiamo avere sollievo dopo questa tragedia, speriamo solo che facciano il processo per direttissima e che noi si possa andare a dire l'odio che abbiamo nel cuore contro di loro ». La madre, Delfina Passerini, 53 armi, tutta vestita di nero, la cerchia dei capelli bianchi, le è seduta al fianco e si stringe nervosamente le mani. Soffre di cuore e quel tragico lunedì, quando erano andati a casa a dirle la pietosa bugia di un incidente stradale nel quale suo marito era rimasto gravemente ferito, era stata colta da un collasso. Un medico le aveva praticato iniezioni, l'aveva fatta mettere a letto e aveva vietato di dirle la verità. Le è stata taciuta fino a ieri l'altro. Un dolore senza conforto « Uno strazio ancora più grande — dice Wilma —: io e mia sorella Adriana dover andare al funerale senza dirlo alla mamma e, tornando, dover raccontare che era soltanto ferito, ma che i medici non volevano che gli si facesse visita ». La madre, anche lei a bassa voce, contenuta nel suo dolore, dice: « Questi banditi sono mostri, non hanno rimorso, anche se uno di loro fosse mio figlio non lo perdonerei. Hanno ammazzato a mente fredda, non nel primo momento di panico, ma durante la lunga fuga, ridendo, cercando di uccidere soltanto per provocare i degli incidenti e farsi largo. Anche quando saranno condannati all'ergastolo, la delinquenza che tormenta il nostro Paese non sarà risolta, ci vorrebbe la pena di morte, per dare l'esempio»* La situazione in casa Oddone è grave. Il camionista aveva uno stipendio discreto, al quale si aggiungeva quello di Wilma che è impiegata a Milano presso una ditta di apparecchiature pneumatiche e guadagna poco più di sessantamila lire. (L'altra sorella, Adriana di 24 armi, è sposata e vive altrove). Dice Wilma Oddone: «Ora dovremo vivere con il solo mio stipendio e io sarò costretta a rimanere lontana da casa tutto il giorno; come farò a lasciare mia madre sola, cosi malata di cuore com'è? Dovrei poter trovare un lavoro qui a San Donato». I genitori di Giorgio Grossi, lo studente diciassettenne che fu colpito da due pallottole alla testa mentre stava recandosi a giocare al tennis e che è morto all'ospedale nella notte, oggi non sono usciti di casa per evitare di trovarsi a contatto con la gioia di tutti gli altri. Italo Grossi, 58 anni, è rappresentante di una ditta di generi alimentari, sua moglie, Giuseppina Farioli, ha dieci anni di meno, è una donna esile, disfatta dal dolore. Stamattina ha ricevuto lei la notizia, per telefono. «Davvero?» ha esclamato, ma con una voce smorzata dallo struggimento. Poi, dopo una pausa, ha detto: « Per noi, comunque, è ugualmente tutto perduto »; e poi è scoppiata in pianto e ha riattaccato. Antonietta Canfora, " vedova di Francesco De Rosa, l'artigiano pellettiere che è stato ucciso da una sventagliata di mitra in piazza Stuparich, è tornata da Napoli domenica sera. Lei e il marito, napoletani, erano immigrati a Bresso, alla periferia di Milano, cinque anni fa con la loro bambina, Anna, che aveva un anno. Lei era ostetrica, lui si dedicava all'artigianato della pelletteria. Prima lavorava in casa, assieme al fratello, poi prese in affitto uno scantinato in via Vittorio Veneto e assunse alcune ragazze orlatrici. Il lavoro si era via via ampliato. Negli ultimi mesi la piccola azienda si era trasferita in un vasto locale di via Vercesi, sempre a Bresso dove lavoravano, guidati dai due fratelli, una decina di dipendenti, mentre la moglie di Francesco continuava ad esercitare la propria professione presso gli ambulatori dell'Inani di Cusano Milanino. Dopo la sciagura i familiari (era qui a Milano anche il padre della vittima e pure lui «rimasto colpito, ma fortunatamente soltanto di striscio) sono partiti alla volta di Napoli per accompagnare il feretro. La bambina e il nonno sono rimasti laggiù, mentre Antonietta e il cognato sono tornati al Nord per riprendere il lavoro. La donna ieri si è recata alla direzione dell'Inani e ha comunicato la sua intenzione di licenziarsi. Oggi pomeriggio l'abbiamo trovata nel laboratorio di via Vercesi, già seduta a una macchina da cucire, la stessa che prima usava il marito, di fianco al cognato. «La mia tragedia non finirà» Quando ha appreso la notizia della cattura ha detto che non aveva da fare alcun commento, ma poi ci ha ripensato: « La notizia non mi può consolare — ha detto — perché la mia tragedia non finirà mai, mi hanno portato via il padre della mia bambina, sono delle belve feroci. Tuttavia apprendo con soddisfazione che ora dovranno patire qualcosa anche loro, peccato che questo patimento non sia mai tanto grande come il dolore di chi piange un congiunto morto ». Ha riabbassato gli occhi e si è rimessa a cucire una borsetta. Anche le macchine delle altre ragazze, che si erano fermate mentre lei parlava, hanno ripreso il loro ticchettìo. Suo cognato ha voluto aggiungere qualche parola: « Adesso non vorremmo più parlare di questa tragedia: è nostra, ce la dovremo tenere nel cuore noi, in pace ». Siamo andati anche nella casa di Roaldo Piva, l'invalido di Bollate che ha guidato la polizia sulle tracce del bandito Rovoletto ed ha partecipato lui stesso alla cattura, nonostante la sua malattìa di cuore e l'invalidità a uria gamba; e che poi, tre giórni dopo, è morto per un collasso cardiaco, dovuto allo sforzo e all'emozione. Là sua figura e il suo gesto generoso hanno commosso l'Italia intera. In casa, un decoroso alloggio in un edificio di nuova costruzione, c'erano seduti intorno al tavolo della camera da pranzo i due figli, Mauro di 18 anni e Marco di 21, e una zia materna. Stavano cercando di riordinare i telegrammi, i biglietti e le lettere di condoglianze che, in numero di oltre trecento, sono giunti da ógni parte, spediti soprattutto da persone sconosciute òhe sono rimaste ammirate e addolorate per l'eroico e sfortunato gesto del Piva. Si leggono frasi come queste: « E' stato un uomo esemplare »; « Un gesto tremendo e sublime»; «Vostro padre ha scritto una pagina nella storia italiana»; « Vi resta l'orgoglio di essere suoi figli », « Ha compiuto una cosa a cui da moltissimo tempo non eravamo abituati »; « Un esempio concreto a tutti noi in questo periodo di scetticismo e di disorientamento ». I figli e la loro zia leggono e rileggono telegrammi e lettere, incominciano a rispondere, ma ogni tanto uno di loro scoppia a piangere. La vedova Maria Padovani è di là, a letto, sfinita dal dolore, non riesce quasi a reggersi in piedi, anche perché durante la lunga agonia è sempre rimasta al capezzale del marito, incurante delle conseguenze che le avrebbero arrecato quegli strapazzi. Dice Marco: « Eravamo una famiglia felice: noi fra telli e il babbo tutti impiegati presso la ditta Patti, una grossa azienda di Bollate che si occupa della la¬ vorazione di carni; contenti di avere finalmente potuto fare smettere di lavorare la mamma. Il dolore è grandissimo, ma è stata anche grande la commozione per la enorme dimostrazione di affetto che abbiamo avuto intorno a noi. La nostra ditta, che non aveva mai chiuso i battenti per nessvna ragione e in alcuna festività, lo ha fatto in occasione dei funerali perché tutto il personale — 120 dipendenti — potesse parteciparvi. Quando stamattina abbiamo saputo che avevano preso i banditi, abbiamo provato un certo sollievo. Ma non viviamo di vendetta: sappiamo che c'è una giustizia ben più alta di quella umana. Proviamo per questi sciagurati una certa pena per la loro povertà di spirito ». Il coraggioso maresciallo La notizia ha suscitato un enorme interesse anche negli ospedali cittadini dove erano stati ricoverati i ventitré feriti della sparatoria. Fortunatamente, parecchi sono già stati dimessi. La più grave è Angela Maffi in Bolis, di 51 anni, che è dentro un polmone di acciaio. Si alternano al suo capezzale il marito e la sorella. Hanno portato anche a lei la notizia della cattura dei banditi ed ha risposto con un cenno di consenso del capo. In una cameretta, dell'ospedale Fatebenefratelli è ricoverato il maresciallo della mobile Giacomo Siffredi che era alla caccia dei banditi a bordo di una «pan tera » e che fu raggiunto da un proiettile che gli trapassò un polmone. Le sue condizioni sono sensibilmente migliorate. Oggi era pieno di gioia: «Anche quando stavo male, ero preoccupato dal pensiero che quegli sciagurati pot—~ero compiere un'altra strage; lo temevo molto, convinto che avrebbero voluto vendere cara la loro pelle». Remo Lugli In via Moscova, la folla ha atteso ieri l'arrivo a Milano del due malviventi (Tel.)