Gli storia non hanno più paura di A. Galante Garrone

Gli storia non hanno più paura Finalmente si ocenpano dei fatti contemporanei Gli storia non hanno più paura E' caduto il pregiudizio, per cui lo studioso «serio» si dedicava soltanto alla storia antica e non si occupava degli uomini qualunque, ma solo di principi e generali - Il ricercatore onesto non «fa politica» nemmeno indagando sugli eventi di oggi La storia contemporanea è allo zenith. Si pensi al successo, presso il grande pubblico, dei libri dedicati alla storia del fascismo, del nazismo, della guerra di Spagna, dell'ultima guerra, della Russia di Lenin e di Stalin, della Resistenza, della rivoluzione cinese, dei partiti. Questi stessi temi hanno fatto breccia anche nell'angusto recinto della storiografia accademica. Nell'ultimo numero della Rivista Storica Italiana, Roberto Vivarelli e Leo Valiani hanno avviato un'approfondita discussione sulla monumentale biografia mussoliniana di Renzo De Felice. I grandi problemi che dominano, con la loro drammatica problematicità, l'esistenza degli uomini, suscitano angosciose domande e appassionate controversie, e pongono agli studiosi ardui quesiti d'interpretazione. Si vuole vedere più chiaro intorno a noi, risalire alle origini della situazione in cui viviamo. Gli orizzonti si sono allargati a dismisura. Vacilla o svanisce l'orgogliosa convinzione dell'assoluta superiorità della civiltà europea, con l'apparire alla ribalta dei popoli d'altri continenti. E le prodigiose trasformazioni tecnologiche dell'industria, i grandi movimenti sociali del nostro tempo hanno come immeschinito le vicende di re e principi, i maneggi diplomatici, le guerre o guerricciuole dei tempi andati, che ancora stipano i manuali scolastici. Le sorti dell'uomo sulla terra, hic et nunc, sembrano collocarsi al centro della storia. Salutiamo quindi come un segno del tempo i Dialoghi del XX (direttore Alberto Mondadori). E' l'edizione italiana del Journal of Conlemporary History, pubblicato dall'Istituto di Storia contemporanea di Londra, con l'aggiunta però di contributi di nostri studiosi'- su temi di particolare interesse italiano (e così, nel secondo numero uscito in questi giorni, abbiamo letto un bel saggio di Nicola Tranfaglia sulla prima formazione di Carlo Rosselli). Ogni fascicolo trimestrale ha carattere monografico, I due finora apparsi sono dedicati al fenomeno fascista fra le due guerre mondiali, e ai movimenti intellettuali di sinistra; i due prossimi si occuperanno della crisi del 1914 e del socialismo di fronte ai grandi conflitti del secolo. Il che varrà a preservare la rirista da uno spicciolo filologismo puramente erudito, c a darle un forte sapore di attualità, pur, nel rispetto del rigore scientifico. Come auspicava, del resto, un grande storico, Delio Cantimori, nelle sue ultime, piacevoli divagazioni (Conversando di storia, ed. Laterza, 1967). La storia contemporanea non è certo un genere nuovo: si pensi a Tucidide, a Tacito, giù giù fino a Voltaire. Il disdegno, o il sospetto, per questo tipo di storiografia sono di data piuttosto recente; nascono dallo specializzarsi delle discipline storiche, dal « professionalizzarsi» degli storici. Oggi molte prevenzioni sono cadute. La prima guerra mondiale ha aperto gli occhi a tutti; ha dimostrato persino quali gravi conseguenze può avere l'ignoranza dei grandi problemi del proprio tempo. E' stato, per esempio, notato come i professori di storia e un po' tutta la classe dirigente inglese fossero molto più informati della Grecia e di Ro ma antiche, che non della si tuazione dell'Europa al principio del Novecento, e dei pericoli che minacciavano la pace. Alcuni grandi corrispondenti dall'estero, come Wick ham Steed che conosceva a fondo le recenti vicende e problemi aperti dall'impero asburgico, scrissero ottimi libri, che diffìcilmente si sarebbero potuti trovare nelle bi blioteche delle università. E an che questo spiega perché tanti si lasciassero sorprendere dai tragici avvenimenti. Naturalmente bisogna anche sapersi guardare dagli eccessi opposti, dall'infatuazione superficiale e impressionistica per la realtà contemporanea (mentre la storia vera esige sempre il distacco e il dominio degli avvenimenti), dal trascurare i sedimenti anche secolari delle situazioni, dallo scambiare l'esotico per un valore assoluto di civiltà. Altrimenti si arriva alle storture deplorate da L. Woodvvard nell'articolo introduttivo di Dialoghi del XX, come quella di considerare Timbuctù importante quanto Atene nella storia delle società umane. Lo storico contemporaneo ha una massa enorme, perfino eccessiva, di documenti a sua disposizione. Il fatto che una parte di essi non sia ancora accessibile non gli preclude la possibilità di un giudizio. Ciò che conta, è l'intelligenza dello storico — quella specie di divinazione di cui parlava Michelet —, la bontà del metodo, lo scrupolo di verità. Salvemini dall'America era riuscito, essenzialmente sulla base della stampa fascista, a ricostruire le linee maestre, della politica estera mussoliniana, che gli studi successivi hanno nella sostanza confermate, pur con qualche parziale rettifica. Ma Salvemini era uno storico vero. Si dice pure che solo a distanza di molto tempo si può venire a capo delle verità che l'alta politica e la diplomazia usano tenere avvolte in geloso segreto. Ma anche questa pretesa segretezza è uh mito, che non regge alla severa analisi dello storico contemporaneo. Uno dei più grandi giornalisti del Times rifiutò sempre di ricevere informazioni « sotto il vincolo della segretezza », perché sapeva che non avrebbe tardato egli stesso a scoprire la verità. Tutto dipende dall'acutezza del ricercatore. Si obietta infine che lo storico contemporaneo è inevitabilmente tratto a far della politica invece che della storia. Questo « liquefarsi della storia nella politica » (come diceva Omodco) è certamente un rischio effettivo, ma non è detto che non lo si corra anche quando si studia la. rivoluzione francese o le guerre di religione o eventi anche più lontani. Si potrebbe d'altronde ravvisare, in alcuni giovani e valorosi storici contemporanei del nostro paese, un ritegno persino eccessivo a dare giudizi di fondo, quasi il timore di compromettersi politicamente. Decisiva è sempre e soltanto la prospettiva da cui ci si mette, l'impegno scientifico, la capacità di guardar nel profondo. L'importante è che lo storico non pretenda di spacciar « soluzioni » dei problemi del suo tempo, non si asservisca a fini di parte, non si atteggi a « profeta »: ma abbia soltanto il culto della verità. A. Galante Garrone

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