Italiani e tedeschi in Russia durante la ritirata sul Don di Giuseppe Mayda

Italiani e tedeschi in Russia durante la ritirata sul Don Un opuscolo sovietico sulla sorte dell'c Armir Italiani e tedeschi in Russia durante la ritirata sul Don Due studiosi di Minsk hanno pubblicato una rievocazione storica sul tragico dicembre 1942 Secondo la loro tesi i superstiti italiani (64 mila) sarebbero stati massacrati dai nazisti nel corso del ripiegamento - Dichiarazioni dell'ex ufficiale della «Tridentina» Nuto Revelli, di Cuneo, uno dei testimoni del dramma - Malattie e fame falcidiarono i nostri prigionieri (Dal nostro inviato speciale) Cuneo, 14 settembre. A venticinque anni di distanza dalla tragedia dell'«Armir» — l'armata italiana semidistrutta durante la ritirata sul Don — due studiosi russi, Mikhailov e Romanovsky, hanno pubblicato in questi giorni, sulla base di documenti in gran parte inediti e tratti dagli archivi tedeschi, una ricostruzione storica di parte sovietica di questo capitolo fra i più .drammatici ed angosciosi della seconda guerra mondiale. L'opuscolo, intitolato «Non bisogna perdonare», è comparso a Minsk e, secondo quanto riferisce una corrispondenza del «Corriere della Sera», getta una particolare luce su uno degli aspetti della «brutale amicizia» che legò Mussolini ad Hitler: i rapporti fra i soldati dell'Asse nel corso della campagna di Russia. L'assunto degli autori è quello di una totale e completa responsabilità tedesca nello sfacelo dell'« Armir »: secondo Mikhailov e Romanovsky, infatti, gli italiani furono prima decimati in iL prese disperate sul Don e poi, durante il ripiegamento, privati con fredda determinazione dagli alti comandi tedeschi di viveri, di mezzi di trasporto, di munizioni, di medicinali. Non sono rivelazioni perché le testimonianze de « La strada del Davai » e de « La guerra dei poveri» di Nuto Revelli non hanno lasciato dubbi in proposito. Perplessità sorgono invece dinanzi ad una singolare affermazione dei due studiosi sovietici là dove essi, affrontando il tema dei superstiti dell'« Armir »", propongono una sconcertante interpretazione: se i sopravvissuti non vivono ancora in qualche angolo sperduto della Russia Bianca o della Siberia — scrivono Mikhailov e Romanovsky — certamente furono massacrati dai tedeschi dopo il 25 luglio 1943. A riprova di ciò, gli autori rivelano che all'8 settembre 1943 gli italiani prigionieri dei tedeschi erano circa 750.000, sparsi in diversi «Lager» di tutta Europa, e che nei mesi successivi la cifra cominciò a scendere paurosamente fino a toccare (novembre 1944) i 96 mila. Così, fra le altre testimonianze di « JVore bisogna perdonare », compare anche un biglietto anonimo, scritto in italiano e che fu raccolto nell'estate 1944 in un villaggio della Bielorussia. Il messaggio — conservato all'Accademia delle Scienze di Minsk — dice: « Siamo stati uccisi dai boia tedeschi. Seicento russi e duecento italiani. Per il nostro sangue, per le nostre donne e bambini, vendicateci». Tutto questo farebbe pensare, dunque, che i superstiti dell'« Armir » vennero passati per le armi dai tedeschi. La tesi non si discosta molto da quella delle fonti ufficiali russe. La « Storia sovietica », pubblicata nel 1960, scrive che le migliaia di soldati italiani indicati come prigionieri in realtà erano morti in combattimento 0 durante la ritirata: i superstiti furono assassinati dai tedeschi a Leopoli, dopo la caduta di Mussolini, per aver rifiutato di giurare fedeltà a Hitler. A questo punto il chiarimento si impone perché ogni volta che appaiono libri o pubblicazioni riguardanti i prigionieri dell'« Armir» una speranza, purtroppo assurda, si riaccende in decine di migliaia di famiglie che non hanno mai più avuto notizie del padre, del fratello, del figlio dichiarati dispersi in Russia. Un rapporto dell'Ufficio Storico del nostro Stato Maggiore precisa che i Caduti e i dispersi italiani nel ripiegamento sul Don, fra 1*11 dicembre 1942 e il 20 marzo 1943, ammontano a 84.830. Di questi fu possibile accertare la morte di 11.000. In Italia, a guerra finita, ne tornarono circa 10.000; gli altri furono dati per dispersi. Quale fu la sorte dei 64.000 soldati mancanti? Abbiamo rivolto la domanda allo scrittore Nuto Revelli, che fu ufficiale della « Tridentina »: « Occorre dire la verità — ci ha risposte, — Oggi, a venticinque anni di distanza, ogni disperso è un Caduto ». Secondo Revelli quei 64.000 uomini dell'»Armir» persero la vita nel ripiegamento o in prigionia. I nazisti non avrebbero potuto massacrarli tutti, senza che l'eccidio trapelasse. E' ben vero che i tedeschi, durante la ritirata, agivano con estrema brutalità e non esitavano a sparare sugli italiani: «Era la lotta per la sopravvivenza. Loro si ritiravano a bordo dei Panzer, noi andavamo a piedi scalzi nella neve; loro avevano cibo caldo e assistenza, noi mancavamo di tutto. Ricordo un treno merci tedesco che tornava vuoto in Germania: non vollero che vi caricassimo i nostri congelati». Tuttavia — dice Revelli — questa tragica pagina si chiuse col marzo 1943 quando i resti dell'«Armir» furono concentrati ad Udine. In Russia erano rimasti 20 mila italiani, delle divisioni « Ravenna » e « Cosserìa », per una formale rappresentanza che combattesse a fianco dei tedeschi. Ma anche loro — come anno*- nel diario Giusto Tolloy — vennero ritirati il 15 maggio 1943. Quelli che non morirono nella sacca e non riuscirono a uscire dall'accerchiamento finirono nei campi di concentramento sovietici degli Urali, dell'Asia centrale: a Tambov, Karagahda, Taskent. Si può comprendere che gli storici russi, oggi, non siano disposti ad ammettere apertamente l'ultima tappa del calvario dell'«Armir» e preferiscano scaricarne, tout court, la responsabilità sui tedeschi (facendo confusione fra quello che accadde prima e dopo l'è settembre '43) o ventilare la chimerica possibilità di una sopravvivenza. I dispersi della nostra armata in Russia erano uomini debilitati dalle privazioni, nutriti a patate e grano abbrustolito, privi di indumenti pesanti, rassegnati al destino di una guerra che non volevano: le terribili marce nella neve a temperature polari, il tifo petecchiale e la tubercolosi dei campi di concentramento non li perdonarono. Giuseppe Mayda