L'opera di Arturo Martini a vent'anni dalla morte di Marziano Bernardi

L'opera di Arturo Martini a vent'anni dalla morte A Treviso la Mostra di uno dei più grandi artisti europei fra le due guerre L'opera di Arturo Martini a vent'anni dalla morte (Dal nostro inviato speciale) Treviso, 9 settembre. Arturo Martini, il grande scultore italiano che fu uno dei massimi artisti europei affermatisi tra le due guerre, nato a Treviso nel 1889, mori colpito da paralisi dopo tre giorni d'agonia a Milano nel 1947, quando l'Italia era in frantumi ed egli, giudicando vana ed inutile, vuota di significati e di possibilità la forma artistica per cui furiosamente aveva lottato tutta la vita, nel suo segreto chiamava la morte. Poco prima, in un libretto intitolato La scultura lingua morta, era uscito in .parole tragiche per chi aveva popolato di statue stupende il proprio cammino: « Ormai la scultura è assurda se la confrontiamo con la vita». Qui a Treviso, davanti al portentoso gruppo del Figlìuol prodigo che campeggia come un simbolo al centro della mostra dedicatagli dalla sua città, ci dice il suo vecchio compagno Eso Peluzzi, pittore piemontese: «Non poteva più vivere. Sentiva compiuta la sua opera di fronte all'incalzare di diverse poetiche ». Del resto, flgliuol prodigo a sua volta, s'apprestava a ridursi finalmente in famiglia a Vado Ligure. A far che? Ha, risposto Giovanni Comisso nelle commosse pagine che precedono la nuova raccolta, fresca della stampa di Vallecchi, delle Lettere di Arturo Martini: « Egli non avrebbe potuto invecchiare nella sua casa, adattarsi a tramontare senza lotta, senza discussioni, vedendo i figli ingrandire, osservando le sue opere inerme. Egli doveva finire alla vigilia del suo ritorno ». Ma il vero ritorno di Martini, cioè della sua arte somma, del suo tormentato spirito, si compie adesso, nel ventennio della sua scomparsa, in questa Treviso da lui talvolta detestata per la miseria' e le umiliazioni patitevi da ragazzo e nella prima giovinezza (figlio d'un cuoco e d'una cameriera apparteneva alla categoria di artisti che Comisso ha chiamato « proletari »), e tuttavia amata « per un'infinità di ragioni romantiche e nostalgiche », come una volta aveva scritto all'amico Natale Mazzola. Si compie con la mostra grandiosa che s'apre domani, ideata, organizzata e diretta da Giuseppe Mazzotti, l'intelligente, tenace, coltissimo protagonista del salvataggio delle ville venete, legato a Martini da tanti ricordi, conoscitore perfetto della sua vita e della sua opera. Il folto, eccellente catalogo illustrato, curato dallo stesso Mazzotti, conta 197 sculture comprese fra il 1905 ed il '47, mezza dozzina di medaglie, 31 ceramiche, 75 incisioni e disegni, varie illustrazioni per libri e una trentina di di, pinti. Al geniale allestimento di questo complesso imponente, assicurato per due miliardi di lire (a Martini parve di toccare il cielo col dito quando nel 1926 riuscì a strappare ad un industriale 13.000 lire per fondere in bronzo II figliuol prodigo), splendidamente presentato nell'ex chiesa di Santa Caterina, dove accorti restauri hanno rimesso in luce avanzi di preziosi affreschi tre-quattrocenteschi, fra i quali una mirabile figura dipinta da Tommaso da Modena, ha provvisto Carlo Scarpa coi suoi collaboratori; e poiché i maggiori enti trevigiani hanno generosamente contribuito a realizzare la manifestazione, è augurabile che la loro concorde azione valga a destinare il suggestivo ambiente, con l'incantevole annesso chiostro, a sede del Museo Civico di Treviso. Un panorama vastissimo, dunque, dell'arte di Martini, tolti alcuni capolavori inamovibili, ma qui in parte sostituiti da bozzetti —- un panorama che ci riporta a un genio strapotente per facoltà inventive e virtù plastica miracolosamente innata, che quasi autodidatta lo si può dichiarare, come quasi analfabeta almeno sul principio della vita (non andò oltre la terza elementare, eppure nel suo discorrere citava Baudelaire e Leopardi, e col tempo prese a scrivere lettere e testi con la forza stilistica del Cellini) —, s'apre ai nostri occhi. E noi ch'ebbimo con lui dimestichezza affettuosa e nel 1933'34 qui su «La Stampa » ci battemmo per che gli fosse affidato il monumento torinese al duca d'Ao¬ sta finché le gerarchie fasciste, che lo vollero dare ad Eugenio Baroni col bel risultato retorico che tutti vedono, non ci imposero di tacere, non sappiamo dissociare l'uomo straordinario dallo straordinario artista. Ancora adolescente, quando nel gelo invernale e con lo stomaco morso dalla fame, in una stanzaccia all'ultimo piano d'una torre medioevale di Treviso., modellava la creta rubata dal carro d'una fabbrica di stoviglie ch'era 11 presso, e nella figuretta del Veneziano del '700 riecheggiava il Goldoni di Del Zotto, oppure nella chioma riccia del Ritratto di bambino faceva passare il vento barocco del Bernini, dichiarava a Comisso nel loro primo incontro: « Il futuro sarà nostro. Bisogna capovolgere tutti 1 valori»; e sprezzantemente, a chi gli prediceva la possibile fortuna di un Bistolfi, ribatteva: « Se devo diventare come Bistolfl neanche comincio! » (ma fu poi proprio Leonardo Bistolfl a fargli assegnare nel '23 il monumento ai Caduti di Vado Ligure): e addirittura bistolfiani, cioè liberty, sono certi «suoi lavoretti giovanili come Mascherina o la Fata del Bosco. Più tardi rispondeva a un referendum: « Che cosa è per me la Tradizione? Questa domanda mi riesce tanto buffa, come se un bambino mi chiedesse che senso ha per me mia madre. Siccome il sangue che hai nelle vene nessuno te lo può cambiare, questo è la Tradizione». Fra tali opposte angolazioni della veduta artistica nel suo corso storico sta tutta la verità plastica rivoluzionaria di Martini rinnovatore della scultura italiana e, nello stesso tempo, come ha detto benissimo Mazzotti, « sempre in ascolto delle voci antiche, non per ripetere le antiche forme, ma per ricrearle secondo il suo genio ». Un genio che sembra procedere rapace, tra fulminee intuizioni, per colpi di mano sui paradigmi dell'arte, trascinato da un formidabile impulso nell'azione « di sgombero di tanto infausto accademismo vecchio e nuovo », ha scritto Mario De Micheli nel suo libro Scultura italiana del dopoguerra, additando nella freschezza, nel rischio, nell'allegra disinvolta forza, nella sensualità non sofisticata, nella novità del modellato e della tecnica « le doti che Martini profuse quasi di colpo nel deserto della scultura italiana ». Con un crescendo rapinoso ed abbagliante. Prima, assaggiato appena il « floreale » con lieve ritardo proviriiale sul quadrante del gusto e appena accolta la lezione (poi sconfessata) di Medardo Rosso Impressionista, legandosi al grande ed infelice Gino Rossi, e quindi al gruppo di Burano e alle vitali esperienze di Ca' Pesaro promosse da Nino Barbari fini (e in esse maturò anche il giovane Felice Casorati), per un istante tendendo l'orecchio alle sirene del Cubismo e del Futurismo, che La prostituta e il Ritratto di Omero Soppelsa (1913) sono fugaci omaggi a Picasso e Boccioni. Quindi sposando i prolegomeni del « Novecento » con l'adesione, intorno al *20, ai « Valori plastici» di Mario Broglio, onde il proposito culturale, la disciplina, la fedeltà storica, imponendosi a un temperamento visionario — acutamente osserva Guido Perocco nel suo esauriente volume Arturo Martini del novembre scorso —, « raggelano spesso la forma in un modulo compositivo »: dal Busto di ragazza (1920), al Poeta Cecov, all'Orfeo (1922) della Galleria Nazionale di Roma. Ma il suo naturale indomi to, sferzato da un immenso orgoglio, dalla volontà di vincere l'umiliante indigenza, dalla bramosi* dell'assoluto primato, prevale su ogni esterna suggestione stilistica; e do po il '25 con II bevitore. Il figliuol prodigo. La Pisana, nasce il Martini sommo che sta nella costellazione del più eccelsi statuari italiani d'ogni epòca. E' la stagione, fra il '30 e il '41, dei capolavori gloriosi: Donna al sole, La lupa, Veglia (qui presentata col titolo l'Attesa), Chiaro dì luna. Il sogno, la Convalescente, La venere dei porti. L'aviatore, Gare invernali, il Sonno, la Sete, Tobtolo (quasi una scommessa di superare Gemito, come infatti.avvenne). Maternità, San Giacomo Maggiore... fino alla famosa Donna che nuota sott'acqua; e non van dimenticati i superbi particolari del monumento per il duca d'Aosta, rimasti come opere a sé stanti. In questo decennio si rive¬ la l'eccezionale dovizia dell'Immaginare poetico, della fantasia plastica di Martini. Il passaggio fra la balenante idea della forma più originale e ardita (La sposa felice) e la traduzione di essa, concreta, nella forma medesima, si brucia con rapidità inconcepibile nel calore di un'invenzione talora addirittura delirante; e la figura balza allora dalla materia con una vitalità selvaggia, irrefrenabile. In tutta la scultura Italiana moderna non ci sovviene d'yn corpo femminile teso da un'energia sensualmente vorace come La lupa. E vorace di vita, grondante di senso fu Arturo Martini. Gli venne finalmente la fama, gli vennero gli incarichi ufficiali, come i marmi della Giustizia Corporativa ed altri per Milano: la sua parentesi nera; ma, come il Cellini, diceva: « Il mio mestiere è far statue, lavoro per chi me le ordina ». Forse d'un segreto disgusto si vendicò rinnegando in teoria la scultura che al suo nome aveva dato la gloria: in teoria, perché — quantunque un attimo tentato dall'astrazione — un anno prima di sparire scolpiva ancora in dieci giorni direttamente nel marmo il Palinuro classico, sua opera suprema. Marziano Bernardi Palinuro», opera in marino di Arturo Martini, esposto alla mostra di Treviso