Una minaccia seria al «boom» americano di Alberto Ronchey
Una minaccia seria al «boom» americano Lo sciopero del 160 mila della Ford Una minaccia seria al «boom» americano Il boom americano continua ancora, dal 1961. Dopo 10 slowdown degli ultimi mesi, ora la spinta è più forte di prima. La pressione inflazionistica, tuttavia, è un rischio sempre più insidioso. La guerra del Vietnam costa un deficit crescente al governo federale e disturba la bilancia dei pagamenti. Il conflitto può suscitare contraccolpi imprevisti sui prezzi delle materie prime e l'accumulazione delle scorte. I richiami alle armi possono rendere acuta la penuria di manodopera specializzata. E adesso scadono molti contratti sindacali. Da tempo era atteso con ansia questo settembre» per la scadenza del contratto triennale fra l'industria automobilistica e l'United auto workers, il potente sindacato di Walter Reuther. Ora, nel momento stesso in cui 11 contratto scadeva sono entrati già in sciopero i 160 mila operai della Ford iscritti all'Uaw. Questa vertenza potrà essere durissima, per molte ragioni. Anzitutto l'indice dei prezzi ha subito qualche scossa negli ultimi due anni; la spirale prezzi-salàri deve fare il suo corso. Inoltre si sa che l'United auto workers è al centro d'una complessa contesa d'influenza politica e prestigio contrattuale fra i leaders delle Unions americane. Infine il sindacato è ricco, può spingersi molto innanzi. Il «Fondo scioperi» delVUnited auto workers è di 67 milioni di dollari (32 miliardi di lire). Come sempre in simili casi, il sindacato doveva scegliere il suo primo bersaglio fra i Big three, le tre maggiori industrie automobilistiche d'America, che nell'ordine di grandezza sono la General Motors, la Foro! e la Chrysler. Con uno sciopero dei 375 mila operai della General Motors iscritti all'Uaw, sarebbe stato paralizzato il 52,5 per cento della produzione automobilistica nazionale, ottenendo il massimo contraccolpo economico. Ma i 67 milioni di dollari del «Fondo scioperi » sarebbero finiti in sei settimane; invece contro la Forti potevano durare dodici settimane, e contro la Chrysler quattro mesi. La grande battaglia è cominciata alla Ford, perché tale industria è giudicata-la più arrendevole, a causa d'un famoso contratto concesso nel 1955 senza che fosse stato proclamato uno sciopero. L'attuale tariffa media dei salari operai presso la Ford è di 3 dollari e 41 centesimi l'ora (2130 lire), che insieme con i fringe benefits, i diversi contributi sociali, raggiungono 4 dollari e 70 centesimi l'ora. Il sindacato chiede un aumento globale di 90 centesimi l'ora, mentre la Ford offre un aumento di 55-60 centesimi l'ora. La differenza di 30 centesimi è notevole; per la Ford 30 centesimi l'ora in più a ogni operaio significano 100 milioni di dollari l'anno, pari a 62 miliardi e mezzo di lire. La Ford doveva produrre, e vendere dal 23 settembre, i suoi nuovi modelli annuali. Lo sciopero comincia mentre 84 mila vetture nuove sono già presso i venditori, ma bastano per due settimane. Poi, se lo sciopero non sarà finito, l'industria comincerà a perdere sul suo «mercato 1968». La General Motors e la Chrysler saranno affrontate a loro turno più tardi, secondo quella « siratefjia degli Orazi e Curiazi», che tanto spesso ha portato fortuna ai sindacati americani. Nel passato alcuni scioperi durarono cento giorni (come nel '50 alla Chrysler) o persino 119 giorni (nel '46 alla General Motors). In tempi più recenti, gli scioperi del '61 e del '64 furono solo di tredici e dieci giorni. Si dice che il duello cominciato ora potrà durare un mese. Ma ciò che si teme a questo punto in America non è solo la flessione produttiva dell'industria e dei suoi molti fornitori (almeno entro certi limiti lo sciopero non riduce le vendite, le rinvia). Si teme anche il contraccolpo inflazionistico dei fatti di Detroit. Il presidente Johnson, in questo caso, non ha parlato delle sue guideposts, le linee di guida per un'ascesa dei salari proporzionata a quella della produttività. Il direttore dell'Ufficio federale per le mediazioni sindacali, William Simkin, ha assistito alle dispute di Detroit, ma ha taciuto del tutto in questa prima fase della vertenza. A un anno dalle elezioni presidenziali, forse pesano già le preoccupazioni elettorali del presidente. E forse è difficile per Johnson, mentre il deficit di bilancio s'ingrossa a causa della guerra vietnamita, ri¬ volgere appelli antinflazioni-stici ai sindacati Ma se il movimento che s'è iniziato a Detroit è destinato a estendersi, la pressione inflazionistica minaccerà lo stesso boom a breve termine: e il boom è la sola condizione favorevole che rimane a Johnson in vista delle elezioni. Il suo indice di popolarità è «caduto come un sasso» — secondo l'immagine dell'E conomist — a causa del Vietnam, che ora delude sia chi spera in una conclusione militare sia chi spera nel negoziato, e a causa delle rivolte nei ghetti negri, delle nuove tasse, della stessa crisi che divide il partito democratico. Gli umori pubblici', beninteso, potranno ancora cambiare, come già più volte è accaduto (l'ultima occasione fu il «vertice» di Glassboro). Ma senfallisce. za boom, Johnson Per quattro anni è stato l'uomo del boom; egli è il presidente con la cornucopia fra le braccia, secondo i cartoons dei giornali. Per questo i fatti e le cifre di Detroit sembrano importanti quasi come la stagione delle piogge a Saigon. Alberto Ronchey
Persone citate: Johnson, Orazi, Walter Reuther, William Simkin
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