Viaggio per duemila km di sabbia nel deserto tra India e Pakistan

Viaggio per duemila km di sabbia nel deserto tra India e Pakistan E* uno dei maggior, del mondo e dei più infuocati Viaggio per duemila km di sabbia nel deserto tra India e Pakistan Chi lo sorvola in «jet» prova la profonda sensazione della immensità, ma chi si addentra a piedi è preso da angoscia e da paura - Lo spazio si dilata ad ogni passo e l'aria rovente accresce a dismisura la fatica - Raccontano che sul monte Apu, a 1722 metri, gli dei crearono con il fuoco il primo uomo che dette vita alla stirpe guerriera dei rajput, i dominatori - Per la donna osarono la rotondità della luna, la snellezza della canna, l'incostanza del vento, la dolcezza del miele e là crudeltà della tigre (Nostro servizio particolare) Karaci, settembre. Due sensazioni diverse, due misure, mi hanno fatto comprendere il deserto indiano; . due sensazioni a brevissima distanza di tempo l'una dall'altra. La prima l'ho provata in volo su questo deserto, con un jet di linea: diecimila metri di quota, mille chilometri all'ora. Alle prime luci dell'alba appare sotto le nostre ali il colore rossobruno delle terre subito al di là delle montagne afgane; a mano a mano, poi, che il sole prende forza e batte con violenza sulla piatta distesa aperta verso l'orizzonte sino a svanire in un incerto pulviscolo di calore e polvere, siamo passati sull'arida valle dell'Indo. Dopo — verso Delhi — solo sabbia: due ore di volo, duemila chilometri di sabbia. Foschia sul nulla brunastro di terre morte, inospitali, aggressive; terre che viste dall'ovale riquadro di un oblò di jet srotolano sotto gli occhi come una mappa: viva e vera, sì, ma tanto lontana da non incutere paura né altra angoscia se non quella della sua immensità. Angoscia e paura che invece ho sentito solo pochi giorni dopo attraversando la stessa zona di deserto in India, verso i confini del Pakistan. Dall'automobile (comoda, ben chiusa, i finestrini dal cristallo azzurrato, l'aria condizionata) vedevo dune e sabbie con lo stesso distacco del volo sul jet; ero più vicino, fisicamente, al deserto, ma mi trovavo pur sempre lontano dal suo bruciore, dalla sua aggressività. D'un tratto vedo un villaggio su una collina di rocce, e mi viene in mente di fotografare: c'era una fila di donne che scendeva dallo case verso un pozzo, piccole formiche nere sul giallo dorato delle dune. Volevo fotografarle da vicino. L'auto si è fermata all'ombra di un solitario albero al bordo della strada e io mi sono inoltrato verso il villaggio, affondando nella sabbia soffice come talco; la prima sensazione è piacevole, ma dura poco. In breve il caldo vince anche il ricordo dell'aria condizionata dell'interno dell'auto e sento la rovente carezza dell'aria del deserto ad ogni respiro; lo spazio attorno a me — ed ecco la sorpresa maggiore d'una pur tanto breve marcia a piedi in questo mondo — si dilata ad ogni passo. La mèta sembra allontanarsi anziché avvicinarsi. Dopo aver camminato abbastanza da credermi ormai lontano, mi volto e vedo che la strada, l'albero e l'auto che ho lasciato, sono invece a poche centinaia di metri. Continuo deciso, le donne del villaggio sono quasi al pozzo e le voglio fotografare. Cinque minuti? dieci? mezz'ora? Arrivo al pozzo. La gola è secca, le donne ridono, mi offrono da bere, io mi rovescio l'intero secchio d'acqua sul capo. Ho vissuto nel tempo di pochi giorni una dop, pia esperienza: ho visto uno dei deserti maggiori del mondo da diecimila d'altezza, ne ho misurato la sconfinata misura; e ho marciato a piedi in una microscopica parte dell'insieme, e ho visto, conosciuto, sperimentato pochi minuti di vita, di fatica. Due esperienze complementari: qualcosa per dare anche qui in India, alla parola «deserto», il suo valore esatto. Sentirne il fascino sconfinato, le misure geografiche senza orizzonte; sentirne la paura rovente nella limitata, ma diretta esperienza umana. Questa terra, più infuocata di quelle desertiche d'Africa, è ora divisa fra due Stati confinanti: l'India e il Pakistan; nella sua parte occidentale è chiama ta deserto di Thar, nella sua parte orientale la sua totale aridità è temperata da zone di steppa che giungono sino al corso d'acqua di Chambal; circa mezzo milione di chilometri quadra ti, tra steppa e sabbia, ove la popolazione ha la densità più bassa di tutta l'India e vive soprattutto nei villaggi costruiti nei pressi di sorgenti. Tra la zona totalmen te arida di Thar e la zona delle steppe, sì stagliano le brulle cime dei monti Aravalli. Saliamo dall'infuocata pianura sabbiosa sino a quota 1722: siamo sulla « Cima della Saggezza », il Monte Apu; secondo la leggenda, ebbe qui origine la straordinaria stirpe guerriera dei rajput, che legano il loro nome alle vicende storiche più gloriose dell'India. Essi cosi narrano le loro origini: sul Monte Apu il Dio Vishnu decise di fabbricare una razza tanto forte e coraggiosa da essere capace di vivere nell'asprezza di quel mondo, capace di battere i nemici che — attraverso il deserto — tentavano d'invadere le zone fertili dell'India; e così col « sacro fuoco » creò la stirpe dei rajput (nelle famiglie di Powar, Pariha, Chauhan e Solanki) che riuscì a porsi a capo dell'intero paese. Ascoltiamo, seduti all'om- bra del gronde tempio Jain del Monte Apu, il racconto di quest'epica creazione dell'uomo del deserto indiano; sotto di noi la pianura di sabbia scompare nella polvere. Presto torneremo laggiù per conoscere due grandi pagine della storia antica di questo mondo; non leggende, ma testimonianza reale di due civiltà, tra le più grandi create dall'uomo dell'antichità: visiteremo (a occidente del deserto di Thar) i resti di Harappa e Mohenjo Darò, capitoli della prestigiosa civiltà preistorica dell'Indo. Poi, a ovest (nelle terre oggi chiamate Rajastan), ci muoveremo tra i resti intatti della civiltà medioevale rajput, l'uomo creato dal fuoco degli Dèi sul Monte Apu. « Ti ho detto come sono nati gli uomini rajput di questo deserto, ma ancora non sai come nacque la prima donna » mi dice con un sorriso la nostra interprete indiana. E mi racconta che quando Vishnu, creato l'uomo, decise di dargli una compagna, si accorse di avere già utilizzato tutto il materiale solido di cui disponeva; fabbricò allora la donna alla meglio, attingendo qua e là da elementi del creato. Prese la rotondità della luna e le curve dei rampicanti, l'aderenza della vite, il tremolare dell'erba, la snellezza della canna, la leggerezza delle foglie, l'occhio della gazzella del deserto e l'incostanza e la violenza del vento di sabbia, la timidezza del leprotto delle dune e la vanità di un pavone, la durezza del diaI mante, la morbidezza delle piume del ventre del pappagallo, la dolcezza del miele e la crudeltà della tigre, il calore del fuoco. Mescolò tutto fece la donna e la diede per compagna all'uomo nel duro clima dell'infuocata terra di Thar. Folco Quilici Una donna del Rajastan nel deserto indiano di Thar (Fotografia di F. Quilici)

Persone citate: Folco Quilici, Jain, Powar, Quilici