Un artista del Seicento «laico» e popolaresco di Marziano Bernardi

Un artista del Seicento «laico» e popolaresco Un artista del Seicento «laico» e popolaresco Giovenale Boetto, architetto e pittore, è un nobile esponente delle correnti «ribelli» in Piemonte L'idea di un Piemonte interamente ligio, nei secoli d'oro della sua cultura artistica, che sono il Sei e Settecento, al gusto aulico e ai dettami retorici della Corte torinese, è un'idea — se non del tutto errata — almeno assai incompleta, che i più recenti studi e le più acute indagini critiche vanno dissipando. Come sul fondale politico la ricerca storica moderna scopre gli impensati profili di personaggi sorprendentemente anticonformistici, annidati proprio sul margine dell'ossequio dinastico e di gran lunga più numerosi dei pochi « ribelli » consegnati alle carceri sabaude dalla storiografìa ad usum Delphini, così una ben più innocua ma non meno coraggiosa « fronda » artistica sta tornando in luce attraverso un vaglio spregiudicato di documenti e d'opere. Tra questi «frondisti» di un'arte secentesca piemontese insofferente della « metafora dominante » del letterato Emanuele Tesauro, inesauribile suggeritore di allegorie per le decorazioni dei palazzi ducali — un'arte, perciò, i cui campioni sono da individuare negli « isolati » della provincia piuttosto che nelle schiere di artefici « ufficiali » impegnati a dar lustro alla reggia ed alla capitale — spicca in prima fila Giovenale Boetto, nato a Fossano sul finire del 1603 od al principio del 1604, morto nella stessa città 1*11 novembre 1678. Architetto, incisore, pittore, fu uno dei più geniali artisti del suo secolo non soltanto in Piemonte, e tuttavia fino a ieri quasi dimenticato appunto perché esponente delle forze della provincia in polemica con il concettismo adulatorio dell'arte di Corte; come il Tanzio a Varallo, il Musso a Casale, il Molineri a Savigliano, c quel misterioso Giuseppe Vermiglio alessandrino, del quale si conoscono le tristi avventure romane, arresti, baruffe, dura vita al modo del Caravaggio, nella cui orbita •issi tutti, compreso Giovenale, sono inclusi. Ma la fortuna del Boetto risale. Già il Carboneri gli dava un bel posto (giudicandolo orientato « preferibilmente verso una chiarezza di superfici affine al Vitozzi >) nella sezione dell'architettura della grande rassegna torinese, « Barocco piemontese », del 1963. L'autunno scorso la sua città natale gli dedicava, nel restaurato Castello degli Acaia e per iniziativa della Fondazione Federico Sacco, l'importante mostra eh e stata la premessa del fondamentale libro ora uscito, Giovenale Boetto architetto incisore, mercé il generoso finanziamento della Cassa di Risparmio di Fossano. Splendidamente e scientificamente illustrato, il libro — che si inserisce nella collezione della Società per gli studi storici, archeologici e artistici della provincia di Cuneo — è l'ammirevole frutto delle congiunte fatiche di Nino Carboneri (Boetto architetto), Andreina Griseri (Boetto incisore), Carlo Morra e Roberto Togni (schede, regesto cronologico, bibliografia), Rino Manassero (sezioni e piante dei monumenti), Giorgio Barbero; e la figura umana ed artistica del grande fossanese ne balza viva e completa con straordinaria evidenza sullo sfondo della cultura piemontese nell'epoca barocca. Una cultura cui i viaggi e i rapporti di uomini eminenti, gli arrivi di opere esemplari, il fitto scambio di idee e di gusti con altri centri italiani ed europei, una ricca produzione editoriale, tolsero — contrariamente a quanto molti credono — qualsiasi marchio di ristrettezza locale, regionale, e come oggi si dice, « provinciale ». Giustamente nel volume il Boetto architetto (20 pagine) si proporziona col Boetto incisore (57 pagine), perché la sua gloria è soprattutto affidata al bulino e all'acquaforte; benché nel quadro dell'architettura piemontese del Seicenti ungano un posto notevole le sue progettazioni, più o meno pervenuteci integre, per Bra, Cussanio, Savigliano, Bene Vagienna, Fossano, Cuneo, Pamparato, Certosa di Pcsio, Mondovì, Cherasco, Cavallermaggiore. Le quali, fattone un attento esame, confermano la limpida conclusione del Carboneri: che dalla visione architettonica boettiana « tipica senza esser folgorante, ritardataria e precorritrice al tempo stesso, tributaria a componenti diverse e tuttavia coerente, scaturì una lezione che fu accolta con profitto nel Settecento ». Non architetto dunque da situare al livello di maestri quali il Vitozzi o i due Castellamonte; ma tale da non poter essere scisso, per la semplice c forte strutturazione delle sue fabbriche, per il suo tendere, anche come costruttore, ad un linguaggio « popolare » escludente « ogni desiderio di magnificenza meramente scenografica », dall'incisore che fa riferire la sua cultura — specie per quanto concerne il proprio nutrimento spirituale — al sommo Callot, morto poco più che quarantenne negli stessi anni in cui egli comincia ad incidere. Appunto questa unità artistica e morale fra l'architetto, che trae in parte le mosse dal Vitozzi, ed il pittore-disegnatore-incisore, che trasforma con soluzioni originali il segno realistico, concreto, popolaresco dei picareschi soggetti del meraviglioso francese, dà l'avvio alla Griseri per la presentazione di un Boetto che nasce < callottiano » con le sue prime incisioni intorno al '33'34, e via via si irrobustisce con gli esempi del caravaggismo romano e napoletano giunti a Torino ad accrescere le collezioni ducali. Cioè di un Boetto maestro della «realtà», che impersona una dura polemica con l'arte classicista e manierista della Corte sabauda e del suo entourage nobiliare c prelatizio. Sarebbe dire troppo affermando ch'egli — pur nelle figurazioni religiose e nei grandi apparati funebri — è il vero, l'unico artista « laico » del suo tempo in Piemonte? La sua antirctorica, il suo istintivo straniarsi dallo spirito aulico, concettistico, adulatorio che permea le decorazioni, dai Bianchi ai Recchi, dal Miei al Dauphin, al Seyter, del Palazzo Reale, del Castello del Valentino, della Venaria, delle « delizie » sabaude e dei palazzi patrizi, trapela già dai primi bulini e dalle prime acqueforti; dai primi saggi, insomma, della tecnica cut l'aveva addestrato probabilmente il romano Giacomo Marcucci, un decennio dopo il suo alunnato pittorico presso Giovanni Antonio Molineri a Savigliano. Nei suoi Contadini c'è, sì, il gusto* per il pittoresco del Callot, ma privato del « bizzarro » per conservarne soltanto, attraverso un naturalismo caravaggesco, il « magma umano » fatto di stracci, polvere e povertà. Così le Quattro stagioni rappresentate da frati che vanno a piedi o sull'asino come « figure per la strada » del Villamena, sono una novità stupefacente se si considera l'iconografìa arcadica della consueta allegoria. Quest'aderenza a una verità semplice, domestica, quasi dialettale non sarà mai tradita dal Boetto neppure nelle scene per i frontispizi di tesi accademiche che celebreranno, con un piglio alla Molineri affreschista del saviglianese Palazzo Taffìni d'Acceglio, i fasti guerrieri del Duca di Savoia o gli esercizi intellettuali e fisici degli Accademici Solinghi nella « Villa Ludovica » dell'ex cardinale principe Maurizio. Neppure nelle figurazioni sacre, nei ritratti di stupenda interpretazione intimista, nei capolavori di cartografia dell'assedio di Torino, nelle vedute di città disegnate per il Theatrum Sabaudiae e incise ad Amsterdam dalle maestranze del Blaeu per la celebre edizione del 1682; neppure nelle rappresentazioni di riti religiosi {Funerali di Vittorio Amedeo I), civili (Rinnovazion* della lega con Cantoni svizzeri nel duomo di Torino), di caroselli (quello del 1650 in piazza Castello a Torino), di ingressi trionfali di principi a Cuneo e a Savigliano. Tutta l'opera di Giovenale Boetto, nello sfavillare dell'oro del Barocco con una luce che vuole aver valore anche politico o comunque di dinastico prestigio, è — afferma la studiosa — una geniale altissima « rivalsa della poesia popolare ». Questa è la sua originalità e la sua grandezza. Marziano Bernardi