Il magistrato mestiere difficile di A. Galante Garrone

Il magistrato mestiere difficile Il magistrato mestiere difficile Pochi libri come questo di | Giuseppe Pera (Un mestiere difficile: il magistrato) ci possono far capire quale sia, oggi in Italia, la vita del giudice, c le molte difficoltà che ha da vincere, intorno a sé e prima di tutto dentro di sé. L'autore è stato otto anni in magistratura, prima di passare all'insegnamento universitario; e la sua personale esperienza, anche se ridotta nel tempo e svolta in sedi relativamente piccole e tranquille, al riparo dagli urti di costume e dalle tensioni sociali dei grandi centri, gli permette di parlare del nostro giudice con matura consapevolezza. Piace innanzi tutto nel libro l'orrore della retorica, il tono volutamente dimesso. E' chiaro che il Pera aveva scelto di fare il giudice per intima vocazione; ed egli ce ne spiega benissimo le ragioni. Eppure fin dal titolo egli ci parla, semplicemente, del «mestiere» di giudice (così come un grande storico francese aveva parlato del métter d'historien); si serve cioè di quella stessa, onesta parola che aveva fatto arricciare il naso, anni fa, a certi magistrati, quando Dante Troisi l'aveva usata nel suo bellissimo Diario di un giudice. Certo l'autore è agli antipodi di quegli anziani magistrati da lui ironicamente ricordati, che, riunitisi per celebrare la loro lontana entrata in carriera, inviarono, in veste di «ministri di una nobilissima missione, investiti di un potere che ci fa uguali a Dio e, perciò, suoi sacerdoti», un indirizzo di omaggio al primo presidente della Cassazione, « Sommo Sacerdote, Pontefice Massimo dell'Ordine Giudiziario »! Il Pera ha vivissimo il senso della funzione del giudice: il quale non è. come l'avvocato, l'« uomo della mischia », ma piuttosto lo spirito incline al dubbio, e geloso della propria indipendenza, tenuto a un solo ossequio, quello "verso la legge quotidianamente applicata. E non solo il giudice è indipendente (e può esserlo, se vuole, fino in fondo, anche prima delle auspicate riforme che pure l'autore caldeggia, come l'abolizione della carriera), ma deve apparire tale di fronte a tutti. Per questo, anche in mancanza di un esplicito divieto, è bene che esso non sia iscritto a partiti, né militi in associazioni caratterizzate da uno specifico orientamento politico o confessionale (come i « giuristi cattolici » o i « giuristi democratici »). Il giudice — egli dice, e ha ragione — non deve in alcun modo « aggettivarsi ». Non si può dire che egli abbellisca e idealizzi il corpo della nostra magistratura, e 10 ricinga, come tanti fanno, di un'aureola di sacertà. Per lui i veri giudici, quelli animati da uno spirito quasi religioso, disposti a « non mollare mai », sono pochi, pochissimi. La massa è fatta di burocrati, nei quali si è affievolito, col passare degli anni, quello stato di grazia che 11 aveva sorretti nei primi anni della carriera, e la « spinta impiegatizia » si è fatta prevalente. Molti sono i giudici che, pur mantenendosi personalmente puliti, non credono più alla propria funzione nel mondo e rifuggono pertanto dall'impetuosa severità con cui dovrebbero aggredirne i mali. Discreta è la cultura professionale, indubbia la probità; ma prevale nei più « un onesto, generico e inappagante galantomismo, senza forte temperie spirituale ». Forse questa sua visione dei giudici « quali sono » è, a tratti, perfin troppo grigia; ma è una visione che nasce dal concetto esigente che egli ha dei giudici « quali dovrebbero cs sere ». E vorremmo che queste pagine fossero meditate specialmente dai giovani che stanno per scegliere la strada della magistratura. La gravissima crisi della giustizia in Italia oggi non è più negata da nessuno, è diventata perfino un luogo comune della nostra pubblicistica. Il Pera ne indica le molte cause oggettive e suggerisce le riforme, grandi e piccole, praticamente attuabili, e anche quelle che egli stesso definisce « avveniriste » ed esigerebbero addirittura un rifacimento del nostro assetto costituzionale: mète lontane, dunque, ideali al limite. Ma non si appaga di queste amare constatazioni e audaci proposte; e, più umilmente, ricorda quello che i giudici potrebbero e dovrebbero fare, con la loro condotta, per migliorare le cose. Un po' più di solerzia, di puntualità, di osservanza dei termini, di riguardo per gli interessi dei cittadini (per esempio di quelli chiamati, spesso inutilmente, a testimoniare e costretti a snervanti attese) gioverebbe non poco a rialzare l'efficienza e il prestigio della magistratura. Ci piace riportare quel che il Pera scriveva nel 1963. quando era ancora magistrato: « Ogni volta che ci facciamo prendere dalla pigrizia, ogni volta che arriviamo in ritardo e facciamo attendere, ogni volta che lasciamo invano trascorrere i termini di legge, non soo violiamo il nostro dovere, ma portiamo un contributo negativo sul piano delle rivendicazioni istituzionali... chi viola i doveri del lavoro quotidiano si assume una responsabilità che non è solo individuale: è colpevole su un piano più vasto perché col suo comportamento diffónde nel pubblico, indotto sempre a generalizzare, una opinione negativa che colpisce tutto l'ordine ». Perché mai, si domanda l'autore, in tanti anni non si è mai affermata la responsabilità civile di un giudice per negligenza (come pure una norma del codice consentirebbe), né si è promosso un procedimento disciplinare per tale motivo? In un punto mi sembra di dover dissentire dal Pera (né credo si tratti soltanto di diversità di temperamento): là dove egli deplora quel che gli pare il troppo indulgente andazzo della repressione penale, la « perniciosa pietà », il « pietismo » di troppi nostri giudici. Tutto questo, per lui, non è che imbelle umanitarismo di stampo positivistico, ottocentesco; astratta e giovanile infatuazione per schemi illuministici; lassismo morale; paura di assumere le proprie responsabilità; scetticismo. La sua visione dell'uomo — egli ci confessa — è pessimistica; anche sulla terra ci sono, e ci devono essere, i « dannati alla perdizione eterna»; per certi reati, e non tanto per l'omicidio quanto per altri, socialmente e moralmente più repugnanti, non ci starebbe male la pena di morte; e di fronte a certe forme di teppismo non guasterebbero altre forme di repressione, come le nerbate, o il taglio delle chiome femminili; e non sarebbe poi un gran male che le forze di polizia usassero le armi, anche in occasione di disordini pubblici, o nell'inseguire i malviventi in fuga; e le pene devono essere afflittive, e le carceri il più possibile inamene... Al- tro che impietosire l'opinione sulla sorte del ladruncolo di pochi mandarini, condannato a tre anni, o dell'ergastolano innocente! Bisognerebbe piuttosto applicare il codice penale con maggior rigore. A costo di essere annoverato tra quelle che il Pera ironicamente chiama le « anime elette », mi permetto di obiettargli che richiamarsi ai principi di Beccaria o del criminalista Carrara non è vacuo umanitarismo, ma sforzo di razionalità; che in tanti casi è più facile condannare che assolvere; che il codice Rocco è zeppo di disposizioni draconiane, da, temperarsi con umana saggezza; che le garanzie di difesa dell'imputato hanno un valore assolutamente primario; che le effettive disparità economiche e sociali spesso inducono, legittimamente, il giudice a investirsi delle ragioni del debole, del povero, dell'indifeso. A. Galante Garrone

Persone citate: Beccaria, Dante Troisi, Giuseppe Pera, Pera

Luoghi citati: Italia