Chi comanda a Pechino ? di Alberto Ronchey
Chi comanda a Pechino ? IL CAOS DELLA dRIVOLUMOiVE CULTURALE » Chi comanda a Pechino ? Un anno fa, il maoismo cessò in pratica d'affidarsi al partito comunista e ai sindacati. Fu la rivoluzione delle «guardie rosse», non più ispirata ad una teoria marxista-leninista, sebbene approssimativa e cinesizzata, ma a concezioni utopistiche e anarco-xenofobe. Sembrò « l'ultima scommessa» di Mao Tse-tung, per esorcizzare ì malanni della Cina: la sua impossibilità di ripetere il «miracolo russo» (un rapido decollo industriale) e l'inconciliabilità col mondo esterno (occidentale o sovietico). Il 18 agosto 1966, il maresciallo Lin Piao comparve al fianco di Mao quale secondo leader del paese, al posto di Liu Sciao-ci. Dinanzi a un milione di « guardie rosse», ripudiò le vecchie strutture amministrative, fece appello ai giovani e ai soldati (non ai contadini e agli operai), denunciò la sopravvivenza di « mostri e demoni » del passato, e infine proclamò un nuovo ordine. Nei mesi che seguirono, la Cina fu sconvolta. L'urto fra la nuova scuola super-rivoluzionaria e le correnti contrarie ebbe momenti di follia e insieme di grandezza: tutte le illusioni della storia rivoluzionaria del mondo tornavano a ripetersi su scala gigantesca, e a esprimersi attraverso strutture logiche spesso incomprensibili per il mondo esterno. Ma le condizioni oggettive della Cina, dopo un anno, non sembrano molto diverse. Il nuovo ordine ha prevalso in poche province. Più volte è stata annunciata la destituzione del presidente della Repubblica, Liu Sciao-ci, e del primo segretario del partito, Teng Hsiaoping: non solo sui manife1 sti murali di Pechino, ma sul massimo giornale cinese. Eppure i due nemici di Mao conservano i loro tifflci; radio Pechino li descrive pericolosi « come tigri ferite », nuove adunanze di massa sono in corso per chiedere la loro punizione. Poche settimane fa, il 20 luglio, è accaduto a Wuhan un caso che offre la misura degli eventi in corso. Wuhan è una grande città della Cina centrale, capoluogo dell'Hupei, molto importante anche perché la sua ferrovia, attraverso il ponte sullo Yangtse, giunge fino ad Hanoi. Poiché le autorità locali erano ostili alle « guardie rosse », Mao vi ha spedito due suoi emissari, il ministro della Sicurezza Hsieh Fu-cih e il direttore del Jenmin Jih-pao, Wang Li. Il generale Cen Tsai-tao, capo della guarnigione locale, li ha fatti arrestare. Solo dopo un lungo negoziato fra Pechino e Wuhan, i due emissari di Mao sono stati liberati. Di ritorno a Pechino, essi hanno avuto una trionfale accoglienza di massa. Per illustrare la vicenda agli americani, Joseph Alsop ha scritto sulla Washington Post: « E' come se tutti i funzionari di Washington venissero inviati all'aeroporto per dare il benvenuto al ministro McNamara e al segretario presidenziale Marvin Watson, nel caso che fossero stati appena rilasciati da una penosa prigionia nella fortezza di Sacramento dal governatore della California, Ronald Reagan. Ecco fino a che punto sono andate le cose in Cina». L'esercito sfugge -1 con frollo di Mao e Lin Piao? Sarebbe la terza crisi dei comandi militari in pochi anni, dopo il complotto imputato al ministro della Difesa Peng Teh-huai nel '59 e la destituzione del capo di stato maggiore Lo Juicing nel '65. In seguito al caso di Wuhan, la settimana scorsa, è accaduto che neH'anniv»—\ rio dell'armata di libc-- one nazionale, solo quattro comandanti sui tredici delle grandi aree militari sono convenuti a Pechino, ' " 3ne tutti fossero stati invitati da Mao Tse-tung. «Lo stesso Mao — osserva il New York Times — ha detto che il potere nasce sem pre dalla canna del fucile. Ma oggi sembra che in Cina ci sia qualche dubbio su chi controlla la canna del fucile ». Le stime americane, inglesi e sovietiche, ora sono quasi concordi sul fatto che i « comitati rivoluzionari » del neo-maoismo hanno prevalso in poche province. La stampa americana dice quattro province, quella inglese sei, quella russa quattro. L'agenzia sovietica Novosti del 22 luglio, in un articolo di Ardatovskij, forniva calcoli precisi: « Solo in quattro province cinesi — Shansi, Heilung Tsian, Shantung e Hujju — le posizioni del gruppo di Mao sono relativamente stabili». Il 4 agosto, la stessa fonte ha confermato in un dispaccio a firma Gheorghiev: «7 comunicati ufficiali sui successi della rivoluzione culturale non parlano mai delle province meridionali e sudoccidentali, compreso lo Szechuan, che conta 90 milioni di abitanti. Egualmente, non si parla del Tibet, del Sinkiang, della Mongolia interna, della Cina settentrionale. Fra le grandi città del paese, i maoisti controllano sol¬ tanto Pechino e Shanghai. Quattro sole province su 26 sono nelle loro mani». Finora, sono stati destituiti 12 su 17 membri effettivi e 4 su 6 membri supplenti del Politburò eletto all'ultimo congresso del partito comunista cinese, oltre a 7 su 10 membri della segreteria. Anche questo calcolo è di fonte sovietica. Nell'ambito del partito cinese, la «rivoluzione culturale » sarebbe stata un putsch della minoranza contro la maggioranza, la quale tuttavia resiste nelle province. Questo spiega perché Liu Sciao-ci e Teng Hsiao-ping resistono. Se gli oppositori fossero solo « un pugno di uomini che calcano la strada capitalistica », secondo la formula che viene usata da un anno a Pechino, come potrebbero durare ancora? A questo punto, tuttavia, l'interrogativo che si pongono gli esperti russi e americani, come gli inglesi e i giapponesi, riguarda i limiti di tempo in cui la Cina stessa può resistere al dissidio fra grandi forze opposte, evitando la disgregazione dello Stato e salvando persino una certa efficienza del governo centrale: la bomba «H» e il quasi-prototipo di missile nucleare sono prove di efficienza, nonostante tutto. Fino a quando la « guerra civile fredda» (o «senza cannoni », come avrebbe detto Lin Piao) potrà prolungarsi come tale, senza divenire « calda »? Il Current Scene di HongKong presenta l'analisi degli ultimi fatti osservando che fino a ieri tutti gli storici della Cina contemporanea, anche quelli che imputavano a Mao e al partito comunista di non saper risolvere i più gravi problemi del paese, concedevano un risultato essenziale: l'apparente unità nazionale raggiunta dalla Cina. «Adesso tuttavia — scrive Current Scene — per la prima volta dalla fine della guerra civile, dopo quasi 18 anni, la Cina unificata di Mao può essere sulla soglia della disintegrazione ». Alberto Ronchey
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