Canale di Suez e petrolio: due armi che si spuntano nelle mani di Nasser di Igor Man

Canale di Suez e petrolio: due armi che si spuntano nelle mani di Nasser I CALCOLI SBAGLIATI METTONO IN PERICOLO LA POSIZIONE DEL DITTATORE Canale di Suez e petrolio: due armi che si spuntano nelle mani di Nasser Il blocco di Suez impoverisce l'erario egiziano senza danneggiare né Israele, né gli Stati Uniti - Con un mese di lavoro, il Canale può essere riaperto; ma Nasser preferisce tenerlo chiuso, piuttosto che accettarvi la presenza di imbarcazioni israeliane - Mentre i pozzi petroliferi del Sinai lavorano a profitto del governo di Gerusalemme, i grandi Paesi arabi produttori vogliono riprendere le forniture all'Occidente Se l'Egitto non trova rapidamente la strada di un compromesso per rimediare alla crisi economica, il regime nasseriano potrebbe cadere (Dal nostro inviato speciale) Il Cairo, luglio. Discretamente, Nasser ha fatto chiedere, nei giorni scorsi, ad alcuni ambasciatori occidentali di suggerirgli come poter rimediare alla rottura dei rapporti con gli Stati Uniti, sema perdere la faccia. Analoga richiesta era già stata avanzata qualche settimana fa. Nasser, « l'uomo dal ri-schio mal calcolato», come l'ha definito Jeune Afrique, si è accorto, in realtà, che quella ch'egli riteneva fosse la sua arma più forte, il Canale di Suez, rischia di sputk targlìsi tra le mani. La chiusura del Canale comporta per le anemiche casse egiziane una perdita secca di un milione di dollari settimanali, ma il pericolo più grave è rappresentato dalla progressiva e fatale svalutazione delta via d'acqua. Paradossalmente, i paesi che risentono meno della chiusura di Suez sono proprio quelli « nemici »: Israele e gli Stati Uniti. Questi ultimi, che coprono il 90 Vi del proprio fabbisogno di petrolio nell'emisfero occidentale, assorbendo solo il 2 '/n della produzione araba, non hanno bisogno del Canale per rifornire le loro basi nel Pacifico. Israele, che dispone di porti attrezzati sul Mediterraneo, da quando controlla lo stretto di Tiran può prescindere dalla via di Suez. Non solo: se l'occupazione del Sinai da 'parte delle truppe israeliane comporta pesanti sacrifici, essi vengono ampiamente compensati dalla « conquista » del campo petrolìfero di Abou Roudeis-Belaym appartenente alla Cope (società italo-egiziana). La produzione del « campo Eni », sulla riva orientale del Golfo di Suez, è di quattro milioni settecentomila tonnellate annue di petrolio, cioè Z'80% circa della produzione totale dell'Egitto, un milione di tonnellate di più dell'intero fabbisogno di Israele. I pozzi di Tor sono in piena attività: ad assicurare il pompaggio provvedono tecnici israeliani, limitandosi quelli italiani, sorpresi sul posto dalla Blitzkrieg, a controllare i quantitativi di petrolio estratto e il funzionamento delle attrezzature. Nell'ottobre del 1956, in seguito alla spedizione anglo-franco-israeliana, il Canale rimase bloccato dall'affondamento di quarantasei navi di vario tonnellaggio e, dal cedimento di, due tronchi del ponte di El Ferdan. I lavori di sgombero ebbero inizio alla fine del dicembre di quell'anno e terminarono ai primi di aprile del 1957. Le attuali ostruzioni sono molto inferiori a quelle di undici anni fa: in un mese, quaranta giorni al massimo, il Canale potrebbe venire riaperto al traffico; sennonché il problema, oggi, non è tanto tecnico quanto politico-militare. Finché ci saranno le truppe di Israele sull'altra sponda, sino a quando i battelli-sfida trasportati dagli israeliani a bordo di camion ormeggeranno tra Port Fuad e i Laghi Amari, Nasser non potrà riaprirlo. Se lo facesse, accetterebbe il fatto compiuto della presenza della bandiera di Israele nel Canale, il che equivarrebbe per lui ad una resa a discrezione. A questo punto, Nasser non può che sparare addosso alle navi del nemico; tuttavia rischia non soltanto la immancabile e rovinosa reazione israeliana, ma soprattutto di dover tenere chiuso il Canale a tempo indeterminato. Facendo esclusivamente il suo danno. A Israele, infatti, conviene che Suez rimanga chiuso: perché può continuare a estrarre il petrolio dal Sinai, perché può varare la costruzione di una pipeline da Eilath, sul Mar Rosso, al porto di Ashdod, sul Mediterraneo. Or non è molto, un portavoce americano ha dichiarato a Washington che « se Israele ne farà domanda, è assai probabile che l'Export-Import Bank possa aiutarla a finanziare la costruzione di questa pipeline che renderebbe inutile il transito del Canale di Suez, per esempio da parte delle petroliere provenienti dal Golfo Persico ». La crisi di Sue- nel 1956, provocò lo scadimento del Medio Oriente come fornitore di petrolio alle indù strie occidentali, a tutto vantaggio del Kuweit, della Nigeria, del Nordafrica col risultato di abbassare il prezzo del greggio. Diminuì l'importanza del Canale di Suez. La crisi del 1967 provocherà necessariamente l'aumento delle prospezioni nel Canada, in Alaska, nel Mare del Nord, in Australia. L'Iran ne trarrà i benefici che già furono del Kuweit; a rimetterci più dì tutti sarà l'Iraq. Ci guadagnerà anche l'Urss (che ha già co¬ minciato a monetizzare il suo petrolio fornendolo persino alla Spagna) a cui l'Europa occidentale dovrebbe ricorrere in misura crescente. Tutto ciò sulla lunga distanza; a più breve termine, la crisi del 1967 aggraverà il declassamento del Canale in conseguenza della corsa al grande tonnellaggio. I «padroni» del petrolio appaiono ormai decisi a far tesoro della seconda dura lezione di Suez. Gli stessi egiziani, dopo il 1956. stabilirono saggiamente di devolvere parte dei proventi del pedaggio a contìnui lavori di approfondimento del Canale per permettervi il transito delle petroliere di stazza superiore alle 70.000 tonn., allo scopo di ridurre il traffico per il Capo di Buona Speranza. Ma tutto lascia prevedere che le conseguenze dì quest'ultima chiusura del Canale saranno di gran lunga maggiori dì quelle del 1956. Oggi, una petroliera da 200.000 tonn. può trasportare il petrolio del Golfo Persico in Europa a un costo per tonnellata inferiore del 40 Va a quello di una petroliera da 70.000. La Shell ha già stipulato un contratto per un anno, rinnovabile, con armatori nipponici, al prezzo eccezionale di 80 scellini la tonnellata, pel trasporto del greggio con petroliere da 120.000 tonn., che non affronteranno mai la traversata del Canale. Per di più, il «fronte pe¬ trolifero arabo» mostra già profonde incrinature: « Il blocco ci è costato finora quindici milioni di sterline — ha dichiarato un portavoce del governo dell'Arabia Saudita — e ciò per "punire" gli anglo-americani d'un intervento aereo mai avvenuto. E' bene ricordare che 1 Paesi arabi non sono la sola fonte di petrolio del mondo! ». L'Iraq e la Libia, che non possono prescindere dalle royalties se non vogliono sacrificare i loro vitali piani di sviluppo, hanno deciso di fornire il petrolio alle nazioni non «direttamente compromesse » nella guerra. Che questo petrolio, strada facendo, cambi destinazione, chi mai potrà controllarlo? Col Canale chiuso e in svalutazione, con la prospettiva di rimanere affamato quando gli aiuti cinesi e del blocco comunista, in fine di settembre, si saranno esauriti, con la necessità di trovare la valuta per acquistare entro ottobre gli ingenti quantitativi di antiparassitari senza cui il raccolto del cotone, già infestato per il 30Vd dal terribile « verme», sarà un tragico fallimento, il futuro di Nasser si presenta catastrofico. Per salvarsi non può che sperare in un compromesso. Sicché tenta di «aprire» verso gli Stati Uniti. Igor Man

Persone citate: Abou Roudeis-belaym, Jeune Afrique, Nasser, Port Fuad