Un uomo di buon senso tra la violenza araba di Carlo Casalegno

Un uomo di buon senso tra la violenza araba Un uomo di buon senso tra la violenza araba «Tre esperienze sfortunate non bastano per condannare una politica?», si è chiesto il presidente Burghiba parlando ad una festa tunisina; ed ha esortato i paesi arabi a trarre le conseguenze di tre sconfitte in venti anni, affrontando con realismo il problema palestinese. Egli non crede nella rivincita contro Israele, e nemmeno nella minaccia di sanzioni contro l'Occidente: «JVon è serio — ha detto — rompere con questa o quella grande potenza, nella vana illusione dì costringerla a supplicare in ginocchio gli arabi» Se le rappresaglie dovessero fare più danno a noi che agli avversari, sarebbero un puro atto di follia », Anche Hussein di Giordania, secondo il primo ministro israeliano, condivide le opinioni ragionevoli di Burghiba: sperava di «far accettare un punto dì vista realistico » dalla conferen za panaraba, che gli estremisti non hanno voluto. Eppure i negoziati di pace, per quanto difficili, potrebbero cominciare subito: gli israeliani (il ministro degli Esteri Eban lo ripete all'Onu) sarebbero pronti a discutere il ritiro delle truppe dai territori occupati, se i governi arabi accettassero di aprire le trattative invece di annunciare la vendetta. Ma la voce della ragione non ha alcuna probabilità di essere ascoltata. Nel mondo arabo gli oltranzisti continuano a prevalere sui moderati, le passioni restano più forti degli interessi. La umiliazione della disfatta, e la coscienza stessa della propria impotenza, trascinano i regimi rivoluzionari a quella politica distruttiva del « tanto peggio, tanto meglio», che è la condanna dei fanatici. Porse Nasser è in parte prigioniero del nazionalismo isterico e della psicosi popolare, ch'egli stesso ha scatenato; comunque non può fermarsi, perché Boumedienne, gli ambiziosi ufficiali siriani, l'enigmatico presidente iracheno gli con tendono la guida della «rivoluzione araba». Questa volta l'Egitto non riescirà, come nel 1956, a trasformare la disfatta militare in vittoria politica Undici anni fa, America e Russia erano d'accordo nel l'imporre il ritiro a inglesi, francesi, israeliani; adesso le Nazioni Unite, paralizza te dal contrasto fra i due Grandi, hanno soltanto dimostrato la propria debolezza: l'Assemblea sta per chiudersi senza essere riuscita nemmeno a votare una mozione platonica di invito alla pace. Per tentare la rivincita, Nasser avrebbe bisogno dell'appoggio diretto dell'Urss; ma il governo sovietico ha dimostrato con chiarezza che non intende rischiare la guerra atomica sfidando la potenza americana, e neppure sacrificare a profitto degli arabi la politica di coesistenza. Con le sanzioni economiche, i paesi arabi non metteranno in ginoc chio né Israele, né l'Occidente; accresceranno soltanto la propria miseria. Nel 1956, la chiusura del Canale di Suez ed il taglio degli oleodotti iracheni sem brarono una catastrofe per l'Europa; otgi l'interruzione del Canale e il blocco dei rifornimenti di petrolio dal Medio Oriente sono giudicati una molestia, o poco più. Già i due terzi del car Durante necessario all'Europa non passano per Suez; con le gigantesche navi-cisterna, il lungo periplo dell'Africa fa aumentare i prezzi del petrolio nella misura tollerabile dell'I o 2BZo. E gli egiziani non solo perdono una dozzina di miliardi al mese in mancati diritti di passaggio; corrono il rischio di veder costruire da gli israeliani un grande oleodotto da Eilat al Medi terraneo, che arrecherebbe un grave danno al Canale Come Burghiba giustamente ammonisce, anche lo embargo sul petrolio farebbe più danno agli arabi che ai loro avversari. Gli americani non ne hanno biso¬ gno. Gli europei possono comperare altrove il carburante, magari con qualche disagio (e già l'Urss ne vende o ne offre all'Inghilterra, alla Spagna, all'Italia), mentre gli arabi, perduti i clienti europei, sarebbero costretti a chiudere i pozzi. Ma è un'ipotesi puramente teorica: il petrolio arabo continuerà a scorrere verso Occidente. Fra l'altro, le sanzioni ordinate dal Cairo favorirebbero quei regimi « feudali » quali l'Arabia Saudita, il Kuweit, la Libia che già hanno ripreso le spedizioni e non esiteranno a ri¬ fornire, attraverso neutrali compiacenti, anche l'odiata Inghilterra. Il ministro degli Esteri sudanese ha invitato gli arabi ad affrontare qualsiasi privazione, pur di danneggiare l'industria europea: però il Sudan non ha petrolio, e non incassa uno solo dei duemila miliardi che paesi più fortunati si spartiscono ogni anno. Purtroppo, l'impotenza e le discordie del mondo arabo non favoriscono la pace. Gerusalemme offre condizioni di pace ragionevoli a nemici tre volte sconfitti: vuole il riconoscimento diplomatico, libertà di pas¬ saggio a Suez ed Akaba, parziali rettifiche di /frontiera; ma non sono accettabili per chi rifiuta l'esistenza stessa di Israele. La voce dei capi arabi di buon senso, come Burghiba, è soffocata dai clamori del fanatismo. La lotta tra « conservatori » e «rivoluzionari» per il controllo dell'intero mondo arabo, dopo brevi giorni di fittizia unanimità contro gli israeliani, sembra farsi più dura: da Aden al confine tra Algeria e Marocco, si possono temere nuove esplosioni di violenza. Carlo Casalegno

Persone citate: Burghiba, Durante, Eban, Nasser