Soltanto il tre per cento degli israeliani vivono ancora nei «kibbntz» dei pionieri di Francesco Rosso

Soltanto il tre per cento degli israeliani vivono ancora nei «kibbntz» dei pionieri L'ASPETTO PIÙ' TIPICO ED EROICO DEL POPOLO EBRAICO Soltanto il tre per cento degli israeliani vivono ancora nei «kibbntz» dei pionieri Il centro della vita sociale si è spostato nelle città, soprattutto i giovani sono attratti da Tel Aviv - La capitale è per Israele quello che Parigi è per la Francia: vi abbondano gli spettacoli teatrali, le iniziative ardite, i concerti, le manifestazioni culturali - E' un'attività vivacissima, intensa, curiosa di tutto ciò che è nuovo - I vecchi « padri della patria », i fondatori dello Stato rimpiangono, come Ben Gurion o Ben Zvi, gli antichi, austeri costumi - Ma non sembra che abbiano ragione -1 recenti fatti hanno dimostrato che la gioventù del Paese è seria, decisa, consapevole, anche se non vuole rinunciare ad uno scapigliato, moderno spirito di libertà individuale (Dal nostro inviato speciale) Tel Aviv, 12 luglio. Il kibbutz fu per lungo tempo, e lo rimane per una sorta di mitologia saldamente fissata nell'immaginazione popolare, l'aspetto più tipico ed eroico della vita israeliana. Per gli ideatori, e poi per i fondatori dello Stato d'Israele, il kibbutz ebbe una funzione essenzialmente sociale; riaccostare alla terra, e sovente nelle condizioni più ingrate, un popolo che nei millenni della dispersione provocata dalla Diaspora, sì era fatto mercante, intellettuale, finanziere, artigiano. Divennero contadini, allevatori dì pecore, esperti In avicoltura, uomini nutriti di studi come Ben Gurion, Ben Zvi, Herz. Ben Yeuda. tanto per citare i più noti, nei momenti in cui il kibbutz era davvero l'avamposto per l'assalto alla conquista dello spazio su cui fondare la patria ebraica. Ciò accadeva all'inizio del secolo, quando gli uomini che ho citato erano ancora ragazzi fuggiti dai ghetti di' Varsavia e di Mosca per ricreare nella terra degli antichi padri lo spirito che potesse ridare coesione al loro popolo disperso. Iettarono contro i turchi che allora dominavano la Palestina; lottarono contro gli inglesi succeduti ai turchi dopo la prima guerra mondiale; lottarono contro gli arabi dopo la seconda guerra mondiale e nel 1948, il 14 maggio, proclamarono solennemente la fondazione dello Stato d'Israele. Erano ancora pochi, ed aprirono le porte ai fratelli che erano sfuggiti ai campi di sterminio nazisti, alle persecuzioni dei paesi arabi. Il kibbutz fu ancora l'elemento catalizzatore dell'unità nazionale e sociale di Israele, vivere nel kibbutz era un titolo di aristocrazia. Professori universitari, medici, ingegneri, appresero a guidare i trattori, ad allevare mucche, polli e pecore, a fare innesti sugli alberi da frutto per ottenere prodotti selezionati con cui vincere la concorrenza nell'esportazione. Ricordo un kibbutz sperduto nell'arida vastità deserta del Negev dove una ventina di giovani si erano specializzati nella coltivazione dei gladioli. I fiori nel deserto, sembravano la pazzia; e forse lo era, ma significava anche la testarda tenacia degli israeliani nel vincere ogni difficoltà. Il kibbutz era un modo di vivere senza eguali, pazientemente eroico, sempre esposto alla minaccia del mondo arabo perché la sua funzione, oltre alla produttività, rimaneva quella di avamposto verso le linee nemiche, a nord in Galilea come a sud nel Negev, ai confini con la striscia di Gaza. Ripenso con nostalgia le giornate trascorse al kibbutz di Ruhama con gli amici fiorentini ,Minerbì, coi torinesi Levi e Segre, e con altri provenienti da ogni regione d'Italia. La striscia di Gaza era a due chilometri, vedevamo ad occhio nudo ì caschi blu dei soldati che l'Onu aveva mandato per controllare la linea d'armistizio fissata dòpo la campagna del Sinai del 1956, un ben fragile paravento perché i terroristi arabi riuscivano sempre a valicare la frontiera e disseminare mine in campi e su strade. Ogni tanto, uno del kibbutz saltava in aria col suo trattore; si faceva lutto per un giorno, e si ricominciava. Era davvero una vita eroica, ma non pionieristica nel senso un po' fumettistico con cui certa letteratura ha descritto il kibbutz. Oggi, mutata la società israeliana, anche il kibbutz ha perduto il suo antico smalto, benché conservì fra le nuove generazioni un alone di leggenda. Le cifre parlano chiaro. Gli israeliani che vivono nel kibbutz sono oggi meno del tre per cento della popolazione, cioè una assoluta minoranza. Il centro della vita sociale si è spostato dalla campagna alla città, anche perché gli israeliani hanno meccanizzato la loro agricoltura in una misura sconosciuta perfino ai paesi più progrediti dell'occidente europeo. La città, come accade in quasi tutti i paesi ad alto sviluppo tecnologico, attrae le grandi masse della popolazione, soprattutto dei giovani, che hanno una mentalità diversa da quella dei pionieri. Tel Aviv, l'ho constatato in molte occasioni, è il polo di maggior attrazione, come Parigi per i francesi, New York per gli americani; è la metropoli di Israele, e per molti versi direi che è la metropoli del Medio Oriente, anche se II Cairo è più popoloso e, urbanisticamente, più splendido. Tel Aviv è una brutta città, con un'edilizia rimasta ferma ai canoni del 1935, con vie strette e contorte, negozi arredati con frettolosa noncuranza, tranne che nell'arteria principale, la Dìzengofl, che si atteggia un po' a Rue de la Paìx, o a via Veneto. Questa cittàpiazza, affacciata ad un mare poco invitante, inalbera un orgoglioso grattacielo di non so quanti piani, forse una trentina. « E' il più alto edificio in muratura fra Milano e Tokio » dicono gli israeliani che sono fieri di questa altissima cima che domina l'uniformità di Tel Aviv. In questa città abita circa la metà della popolazione dì Israele. Il centro urbano di Tel Aviv ha 450 mila abitanti, ma con i vari sobborghi di Giaffa. Ramat Gan, Ramat Aviv. Herzlia, Ramlé, supera largamente il milione. Se si tiene conto che Gerusalemme, nel solo settore israeliano, ha più di 200 mila abitanti, e Haifa ne ha altrettanti, si può concludere che la maggioranza dei due milióni e mezzo della popolazione israeliana è concentrata nelle città. Gli antichi fondatori di Israele, il patriarca Ben Gurion innanzi a tutti, tuonano, contro il massiccio inurbamento, vaticinano decadenza e sciagura, ma a giudicare da quanto è avvenuto tra il 5 e VII giugno scorso direi che le Cassandre strapaesane, o strakibbutzine, hanno torto; per quanto inurbati e ormai allettati dai piaceri che la città può offrire, tutti i giovani, uomini e donne, sono andati al fronte, hanno combattuto valorosamente, ed hanno vinto. Poi, sono tornati quietamente a casa, hanno ripreso le loro occupazioni senza atteggiarsi ad eroi; hanno ripreso a divertirsi modestamente, come sempre. Gli anziani sostengono che il livello di cultura, il vanto d'Israele, sta paurosamente scendendo. Forse è vero che i giovani assistono più distrattamente ai concerti negli auditori con tremila posti a sedere, seguono con difficoltà le esibizioni dell'Abimah, la compagnia che interpreta il teatro classico ebraico, già decisamente accademico; però danno vita a forme dì spettacoli rivoluzionarie, più vicine alla loro sensibilità giovanile, al corrente di quanto accade nel mondo della cultura. Alcuni spettacoli del Living Theatre fanno inorridire gli appassionati del Dibuck. ma attraggono vaste masse di giovani, intellettuali e no. Poi, ai giovani piace ballare. Ciò non accade a Gerusalemme, diventata centro di un esasperato puritanesimo religioso, dove il sabato, giorno della festa ebraica, la vita si arresta completamente. Ma a Tel Aviv, il sabato è giorno dì gaiezza, le numerose sale di ballo si colmano di giovani che, almeno per una sera la settimana, vogliono dimenticare le afflizioni cui li condanna la loro condizione di perenni assediati. A Tel Aviv si balla ovunque il venerdì e il sabato sera, ed anche a Giaffa, il quartiere arabocrociato divenuto centro di attrazione turistica. I locali più alla moda sono quelli di « Federika », frequentato dagli snob, e quello di Mandy Rice, proprio quella dello scandalo Profumo, approdata qui a sfruttare un poco il suo nome circondato da un alone vagamente libertino. Ogni albergo, grande o piccolo, ha il suo night club affollalo, dove i giovani danzano al ritmo infernale delle orchestre più fracassone. E' uno spettacolo che può dire molte cose su Israele, anche se ha un'apparenza frivola. Intanto, sì vede qhe cosa è la gioventù israeliana; mai vedute in nessun altro Paese tante e così splendile, rigogliose fanciulle, di portamento slanciato, i volti bellissimi e soavi, ricercate nell'abbigliamento, teneramente affettuose coi loro cavalieri. I quali cavalieri, di solida muscolatura, atleticamente perfetti, sono invece quanto di più ruvido e trascurato sì possa immaginare, nell'abbigliamento che è quasi uniforme, camicia bianca e calzoni neri, e negli atteggiamenti rudi e alquanto grossolani. (jHiesta gioventù nuova, di¬ rei questa nuova razza israeliana, è nata dal felice incontro di gente approdata qui dai quattro angoli della Terra, dall'Europa centroorientale e da quella occidentale, dalla Persia, dall'Irak e dallo Yemen, dall'Africa settentrionale, dall'America e dalla Turchia. All'inizio, forse hanno stentato ad intendersi, parlavano lingue diverse ed avevano costumi differentissimi. Oggi che si sono amalgamati, hanno generato un tipo nuovo di gioventù; spavaldi e ruvidi, un po', alla texana, cioè privi di smancerie, tutti concretezza gli uomini; affascinanti e sofisticate le donne, sia nell'uniforme mili '.are. sia con le esique minigonne, certo le più audaci che abbia mai veduto. Sono meno meritevoli questi giovani dei brontoloni padri della patria? Decisamente no, perché tra i pionieri degli anni eroici e questa gioventù che ama la musica beat, lavora in fabbrica ed in ufficio anziché nel kibbutz, c'è soltanto differenza di età e di gusti, non nella determinazione di essere israeliani. Uniti da uno spirito nazionale saldissimo, decisi a vivere dove sono nati, anche se assediati da nemici acerrimi, i giovani non sono affatto rammolliti dalla civiltà dei consumi come sostengono gli anziani. E da questo spirito è scaturita la strabiliante vittoria nella « guerra dei sei giorni », vittoria che non sarebbe stata possibile se, come affermano gli anziani, la gioventù israeliana fosse davvero e soltanto incline ai piaceri della vita. Francesco Rosso

Persone citate: Ben Gurion, Herz, Living, Mandy Rice, Ramat, Ramat Aviv, Segre