Bilancio di Picasso di Marziano Bernardi

Bilancio di Picasso RI W AMMIRATO OHE AMATO Bilancio di Picasso L'ultimo anno ha segnato l'apoteosi dell'artista, avvolto da una gloria clamorosa e senza confronti - Ma nei discorsi critici si registrano, accanto alle voci osannanti, riserve sull'autenticità della sua ispirazione Parigi, luglio. L'inverno 1966-67 sarà ricordato nel futuro, tra gli avvenimenti artistici del nostro secolo, come l'apoteosi di Picasso. « Nulla fu abbastanza grande, nulla fu abbastanza bello — commenta ora la Gazette des Beaux-Arts — per accogliere e celebrare le opere di colui ch'i stato fatto un idolo ». Lo si è paragonato ai più grandi nomi della storia dell'arte e della storia dell'uomo. Lo si è detto un fenomeno unico, l'alta e l'omega della pittura, s'è gridato di meraviglia per il minimo suo schizzo. Tutto egli offusca, tutto egli assomma. Tonnellate di carta stampata hanno proclamato il suo genio, radio e televisione contribuito al suo trionfo. Davvero la sua gloria — osserva l'austera rivista — è diventata «.fracassante ». Mai di un artista s'erano infatti mostrate insieme tante opere. Al Grand Palais 284 pitture elencate nel catalogo di Jean Leymaric; al Petit Palais 508 disegni, sculture, ceramiche; alla Bibliothèque Nationaie 142 incisioni. Il 15 febbraio '67 Le Figaro parlava di 850.000 visitatori Sì due Palais; 37.000 n'ebbe la Bibliothèque. Sul New Yor\ Times di quel febbraio P. Waldo Schwarz riassumeva l'impressione generale con una parola: « Troppo! ». Sul Figaro Littéraire André Billy cercava i motivi d'un simile richiamo di folla. Che cosa chiede all'arte il pubblico oggi, a differenza di cent'anni fa? Non una qualità « elevata », ma l'« ardimento», l'invenzione, l'originalità creativa; e come nessun altro Picasso ne è prodigo. Placato il tumulto, ridisceso fra i mortali il personaggio deificato, ci sembra molto interessante il tentativo d'una delle più autorevoli riviste di arte del mondo, la Gazette des Beaux-Arts eh'è nel silo centonovesimo anno di vita, di puntualizzare, per mezzo di Pierre Courthion, la situazione del grande inventore di forme dopo la sua immensa retrospettiva. Il Leymarie, organizzatore dell'esposizione, ha affermato che « Picasso domina il proprio secolo come Michelangelo dominò il suo ». Il confronto regge? L'epitaffio latino dell'Accademia fiorentina dei pittori, scultori e architetti, composto per la traslazione in Santa Croce della salma del Buonarroti, nella traduzione del Vasari celebrava il « maggior pittore, scultore ed architettore che sia mai stato ». Si potrà dire altrettanto di Picasso? Vediamo il bilancio -ora steso dalla Gazette. A volo d'uccello Pierre Courthion ha ripercorso l'opera del Malagueno. Il suo talento eccezionale è già manifesto quando, quattordicenne, firma ancora col nome paterno Ruiz (« Picasso » è quello della madre) la Fanciulla dai piedi nudi. Nei primi soggiorni parigini sono evidenti le influenze di Lautrec, Forain, Steinlen; ma subito nei periodi « azzurro » e « rosa » sorgono i capolavori, quelli che oggi fanno i più alti prezzi. Il Cubismo si annunzia con le Demoiselles d'Avignon (1907), anche se Matisse parla di « petits cubes » la prima volta nel 1908 — battezzando la maggior rivoluzione pittorica del tempo — per il quadro di Braque, Maisons à l'Estaque; e si impone al mondo coi quadri dei due artisti. Segue il periodo c neoclassico », quello in cui s'uniscono figuratività ed astrazione, la stagione delle grandi nature morte, le forme femminili « monocrome, ingrate, stranamente contorte ». Nel 1937, ch'è l'anno di Guernica, compaiono « corps et tètes à doublé aspect, le profil et la face ». Da allora -r continua il Courthion — la pittura di Picasso sembra smarrirsi in una successione di mutamenti sempre più rapidi. Dopo una serie d'impressionanti nature morte come il Cràne de boeuf del 1942, appare « un demiurgo scontento delle sue creature » che rompe, scortica, demolisce il corpo umano con « un pennello malefico.» per esprimere un disperato orrore del mondo contemporaneo. Nel Petit Palais si leggeva fra disegni, ceramiche e sculture di non minore altezza delle pitture, quali La /emme enceinte e La chèvre, il diario intimo del pittore-scultore, le sue domande, i suoi dubbi, i suoi tormenti. Basti pensare all'elaborazione di Guer/uca; ed ai riflessi della vita privata di Picasso sul suo lavoro: « La femme, il fait le tour de plus d'une, du moins dans sa scnsualité eorporelle ». Il « Minotauro » annovera Fernandc Olivier, Marcelle Humbert («Eva»), Olga Kolklova, Marie-Thcrèse Walter, Dora Maar, Francoise Gilot, [acquetine Roque: ad ogni donna rapina qualcosa per farne pittura. Non per nulla nello scorso dicembre il , Times ricordava un giudizio di Wilhelm Uhde: « Matisse è interessato soltanto dalla pittura, Picasso soltanto da se stesso ». Giudizio che coincide con quello attuale di Jean Cassou: « Ogni periodo di Picasso si pone sotto il segno d'una circostanza, d'un avvenimento, di una donna o di un oggetto che lo ossessiona ». Ne viene che l'opera di Picasso è «l'incessante autobiografia del pillole e dello scultore » reinventata in modo folgorante, cui accennava Guido Piovene nel suo articolo de « La Stampa-* che il Courthion riassume dicendolo « tris important ». Cos'è dunque più decisivo per la storia dell'arte moderna: le metamorfosi di Picasso o la sua pittura? A proposito di metamorfosi (e pare impossibile questa sdegnata asserzione), ecco il disgusto di Lionello Venturi nel 1933, prima della sua entusiastica conversione: « Picasso nel gusto mondiale ha conquistato un impero che ora si sta sgretolando... Egli non ha chiara coscienza di quel che sia la menzogna... Perché il pubblico creda alla verità fantastica di un artista, bisogna che cominci a crederci l'artista; ma Picasso non sente nemmeno l'opportunità di credere... è sentimentale e freddo, ma è di rado'umano... incute la meraviglia, ma di rado commuove ». Trascorso un trentennio, c'è un'eco di quelle parole, adesso (Figaro littéraire, 17 novembre 1966), in Claude Roger-Marx: « A rischio di sembrare sacrilego, mi rifiuto di beatificare questo straordinario inventore di un magini, che è anche il più crudele iconoclasta dì tutti i tempi*; e «sul suo destino futuro» il critico avanza un dubbio. Il medesimo, in fondo, di Pierre Courthion, il quale pure riconosce nel prodigioso creatore di ritmi che, « cambiando forme e donne a volontà sua seppe, almeno temporaneamente, imporre la sua visione al mondo », un Proteo della nostra civiltà: « Si parlerà dei suoi tentativi falliti, delle sue negligenze. Gli si rimprovererà la rapidità e la frequente approssimazione esecutiva... l'eccesso di retorica e soprattutto d'improvvisazione*. E Gaetan Pi con su Le Monde paragona « la torbidezza barocca, la gesticolazione trascurata delle ultime tele alla densità e pazienza di quelle cubiste ». Qualche voce discorde; ma tutt'intorno il coro assordante degli osanna. Gerhard W. Weber su Die W-lt: «D'un sol colpo ha spazzato via le belle ai moine e i colori squisiti che perduravano dal Rinascimento ». Werner Spies sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung: « Trasforma in oro tutto ciò che tocca... ». Ma in questo rimbombo ammirativo non c'è posto per un sentimento: l'amore. Amare Picasso come si può amare Raf- laello credo sia diffìcile per chiunque. E' vero che Guernica è « il colpo di tuono che annunzia l'èra atomica e le possibilità d'una distruzione del mondo t; ma ci si domanda se fra cent'anni si compiranno viaggi per sostare davanti a uno dei dicci o ventimila quadri di Picasso, come ancor oggi si fa per la Tempesta di Giorgionc o la Primavera del Botticclli. Anche per questo formidabile sovvertitore di certezze vale la proverbiale interrogazione: «vera gloria?». Marziano Bernardi

Luoghi citati: Guernica, Parigi