Cinema e teatro di Sandro Volta

Cinema e teatro « Chi ha paura di Virginia Woolf? Cinema e teatro (Dal nostro corrispondente) Parigi, aprile. L'anno scorso, al teatro Renaissance di Parigi, venne rappresentato Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, con messa in scena di Franco Zeffirelli, nell'eccellente interpretazione di Madeleine Robinson e Raymond Gérome. La stessa commedia, nella versione cinematografica di Mike Nichols, viene proiettata ora in alcune sale di prima visione parigine; gli interpreti, questa volta, sono Liz Taylor e Richard Burton. Quando si dice che l'interpretazione della Robinson e di Gérome era eccellente, bisogna subito aggiungere che quella della Taylor e di Burton è ancora superiore. Lei, Liz, è una vera rivelazione: non è più la bella ragazza di tanti film pochissimo convincenti; è entrata questa volta anima e corpo nel personaggio di Albee, ha rinunziato alla sua radiosa bellezza, ha accettato di apparire sullo schermo disfatta dall'alcool e dalle delusioni. Burton, grandissimo attore come sempre, tiene testa alla violenza e alle volgarità della moglie con sardonica freddezza, affidando soltanto al giuoco di una maschera straordinariamente espressiva la manifestazione della sua disperazione. Eppure, mentre Chi ha paura di Virginia Woolf? età parsa, sulla scena, perfettamente convincente, c'è ora qualche cosa, nella trasposizione cinematografica, che non convince più. Il film è senza dubbio un capolavoro e sarebbe difficile muovergli qualsiasi obbiezione, ma si ha un'impressione di falso nel suo realismo brutale, come se le tinte troppo cariche ne rendessero improbabile la dialettica. Passando dal palcoscenico allo schermo, il lavoro di Edward Albee offre infatti l'esempio più palese della differenza che esiste fra la prospettiva teatrale e la prospettiva cinematografica. Il pubblico di un teatro è un pubblico di spettatori, che assiste da un particolare angolo visivo alla rappresentazione, soggetta alle illusioni della deformazione scenica. Non si ha mai l'impressione, al teatro, di assistere e, meno che mai, di partecipare alla realtà, ma ad una sua ricostruzione, che obbedisce a certe regole, ad una certa tecnica e, finalmente, ad una finzione se non, addirittura, ad una convenzione. Ló spettacolo teatrale che mancasse di i questa particolare misura prospettica risulterebbe piatto e non avrebbe presa sul pubblico. Tutt'altra è, invece, la sensazione di chi assiste ad uno spettacolo cinematografico: si sente testimone oculare dei fatti. Il loro svolgimento non ci viene raccontato sullo schermo, ma è come se fossimo presenti ad ogni loro sviluppo, come se entrassimo nella camera da letto dei protagonisti e li seguissimo a passo a passo, al loro fianco, quando camminano per la strada. Si capisce che, in queste condizioni, ogni minima deformazione, necessaria per dare risalto a certe «cene nella prospettiva teatrale, ci urti quando la troviamo sullo schermo. Una notte di molti anni fa, Ettore Petrolini, col quale ci eravamo dati appuntamento dopo il teatro al ristorante della stazione di Torino, ci parlò a lungo dell'Avaro di Molière, che qualcuno gli aveva pro( posto di interpretare in un film. Non aveva ancora deciso se gli convenisse accettare, ma le difficoltà gli apparivano sempre più gravi e, infatti, finì poi per non farne nulla. Non vedeva come avrebbe potuto rispettare scrupolosamente il testo di Molière, soprattutto in certe scene, come quelle in cui Harpagon, sapendosi derubato, arriva dal giardino gridando: « Al Indro! Al ladro! All'assassino! All'uccisore! Giustizia, giusto cielo! So no perduto, sono assassinato, mi hanno tagliato la gola, mi hanno rubato i soldi. Chi può essere? Che è diventato? Do ve? Dove si nasconde? Che farò per ritrovarlo? Dove correre? Dove non correre? Non è là? Non è qui? Chi è? Fermati, rendimi i miei soldi, mascalzone... (si afferra da se stesso un braccio). Ah! Sono io. li «io spirito è turbato, e io ignoro dove sono, chi sono, e ciò che faccio ». L'istinto dell'attore gli faceva misurare l'impossibilità di rendere verosimile nella prospettiva estremamente verista di un film il vecchio avaro che, alla ricerca del ladro, afferra se stesso per un braccio, che è invece uno degli effetti scenici più efficaci quando la commedia viene rappresentata al teatro. La trovata appare, anzi, tanto più naturale quando l'Avaro viene rappresentato nell'interpretazione tradizionale della Comédie Francasse, in cui sono scrupolosamente rispettate le angolazioni prospettiche del teatro del XVII secolo. Di tutte le opere di Molière, intrasportabili sullo schermo, si potrebbe dire la stessa cosa. Non disponendo del flashback^ dell'estrema mobilità della macchina da presa e delle risorse del montaggio, l'autore teatrale, sia Molière come il più spregiudicato drammaturgo inglese della « generazione arrabbiata », non può fare a meno di ricorrere a certi espedienti tecnici che risulterebbero insopportabili in un film. xDi questo passo — dice George Dandin — devo andare a lamentarmi col padre e la madre e a renderli testimoni delle pene che mi dà la loro figliola. Ma eccoli uno e l'altra molto a proposito ». Con Liz Taylor e Richard Burton, Mike Nichols ha creato un capolavoro, ma era fatale che si debba provare un certo fastidio assistendo a uno spettacolo in una prospettiva che non è più quella in cui è nato. Se ne è reso conto il regista, che, a un certo punto, ha creduto di rompere questa fatalità facendo uscire i protagonisti dalla casa in cui si svolge l'intera vicenda. Non gli è servito a nulla: ha indebolito l'impressione fisica di prigione coniugale che domina il dramma, senza riuscire a trasferirlo in una prospettiva che non poteva essere la sua. Sandro Volta Inaugurato a Roma

Luoghi citati: Parigi, Roma, Torino