Le nuove generazioni lavorano meno della metà delle vecchie

Le nuove generazioni lavorano meno della metà delle vecchie Le nuove generazioni lavorano meno della metà delle vecchie Un uomo del secolo scorso lavorava in media 220 mila ore nella sua vita; un uomo nato nel 1935, quando andrà in pensione, a 65 anni, avrà lavorato 95.000 ore (Nostro servizio particolare) Parigi, 21 marzo. Nel secolo scorso, un uomo giunto a 65 anni aveva lavorato in media nella sua vita 220 mila ore; un uomo nato nel 1935. quando andrà in pensione a 65 anni, nel Duemila, non avrà lavorato che 95 mila ore circa. La riduzione dell'orario di lavoro è graduale, e passa quasi inavvertita di anno in anno; già entro il 1970. in base ai calcoli degli autori del « Quinto piano economico» francese, si deve prevedere un'ulteriore riduzione media settimanale di un'ora e mezzo. Se però si mettono a confronto lunghi periodi, si ottengono questi risultati impressionanti, che Jean Fourastié commenta sul «Figaro». Nel 1890 si lavorava ancora 3350 ore l'anno nell'industria tessile; oggi la media è di 2100 ore; nelle ferrovie si lavorava alla fine del secolo scorso 3900 ore oggi 2200. Rispetto al passato, si lavora per un numero minore di ore al giorno per un minor numero di giorni alla settimana, per meno settimane ogni anno e per un numero minore di anni nella vita. Oltre al progressivo miglioramento dei contratti di lavoro, anche il prolungamento dell'obbligo scolastico e il trattamento di pensione hanno contribuito a questo «ridimensionamento» della vita lavorativa dell'uomo. In compenso, le nuove tecniche, le produzioni in serie, la migliore organizzazione mettono oggi in condizione un lavoratore di produrre, in un numero minore di ore, una quantità maggiore di beni di una volta. I. m. ne dei Ministero dell'Industria per il 1967. La relazione sostiene — in base a dati aggiornati — che l'Italia spende assai meno dei grandi paesi industriali, col rischio, estremamente probabile, di aggravare il nostro ritardo tecnologico nei confronti dei più diretti concorrenti. Rispetto al reddito nazionale lordo l'Italia spende infatti lo 0,64 per cento, contro l'I,59 della Francia, il 2,04 della Germania di Bonn, il 2.25 della Gran Bretagna. Quanto agli investimenti stranieri, il sen. Banfi si dichiara senz'altro favorevole, ma a patto che gli investimenti rientrino nel programma economico nazionale sia per il settore sia per la localizzazione: che siano collegati ad un programma di ricerca da effettuarsi in Italia con personale prevalentemente italiano; che la partecipazione straniera a società italiane sia contenuta nel massimo del 50 per cento del capitale azionario. L'esponente socialista formula anche esplicite riserve sulle proposte avanzate dal nostro Paese a Parigi per colmare il divario tecnologico fra Europa s Stati Uniti. A suo giudizio, il problema del divario tecnologico andrebbe affrontato a livello europeo con una politica comune che « riporti l'iniziativa nelle sedi naturali, costituite dalla Comunità economica europea e dall'Ocse (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economica) c sia preceduta da uno studio accurato per settori ».

Persone citate: Banfi, Jean Fourastié