I segreti del "boom,, giapponese

I segreti del "boom,, giapponese LO SVILUPPO ECONOMICO SUPERA I PROGRAMMI E LE PREVISIONI I segreti del "boom,, giapponese II Giappone finì la guerra sconfitto e distrutto, ora è la terza potenza industriale del mondo: perché? - All'inizio la ripresa fu aiutata dal conflitto coreano, ma una coincidenza fortunata non basta a spiegarla - L'espansione economica è sostenuta da massicci finanziamenti delle banche, che a loro volta possono disporre di un abbondante risparmio privato - Gli industriali, anzitutto i grandi "trusts" sopravvissuti alle leggi di Mac Arthur, hanno puntato sui settori di tecnologia più avanzata: le produzioni "povere", come i tessili, appartengono al passato - La manodopera costava molto poco, ed ancora oggi riceve salari inferiori del 20-30 per cento a quelli europei; ma le maestranze sono ben preparate, perché nessuno evade dagli otto anni della scuola dell'obbligo - E poi c'è un entusiasmo di massa ignoto all'Europa (Dal nostro inviato speciale) Tokio, marzo Qual è il segreto dell'impressionante sviluppo economico del Giappone, della sua fulminea ascesa verso il terzo posto nella graduatoria delle potenze industriali del mondo, alle spalle soltanto degli Stati Uniti e dell'Unto ne Sovietica f La domanda del visitatore straniero è ormai rituale all'inizio di ogni colloquio, gli ospiti sono già preparati a rispondere con molto humour: « Non lo conosciamo nemmeno noi, e possiamo provarglielo con un esemplo: il reddito nazionale, che nel 1960 1 nostri programmi di politica economica avevano previsto di raggiungere entro il 1970, è già stato toccato nel 1965; tutti i plani devono essere abbandonati per strada o aggiornati perché la realtà continua a smentirli e superarli ». Non c'è naturalmente un segreto, o ce ne sono infiniti, complessi e contrastanti com'è nella natura di questo popolo e di questo paese. Forse una prima chiave è offerta dalla data d'inizio della ripresa, che risale esattamente a quindici anni addietro: il dopoguerra termina per il Giappone quando l'impegno americano in Corea sollecita inevitabilmente la sua economia prostrata dalla sconfitta a riprendere flato, a ricreare almeno una efficiente piattaforma di retrovia. I nipponici contestano che si possa parlare di un puro e semplice rapporto di causa ed effetto, sostengono che si tratta in gran parte di coincidenza. Sta di fatto che tre lustri addietro il Giappone si rende conto improvvisamente, quasi con sorpresa, di avere tutti o quasi i mezzi necessari a « decollare > economicamente. Non ostante le due atomiche e le altre infinite bombe, le strutture produttive sono meno danneggiate di quanto si possa pensare. Sul piano umano, non solo è ovviamente, disponibile mano d'opera a volontà, ma la vecchia leadership economica si rivela ai suo posto come prima e pronta ad affrontare la nuova prova. Mac Arthur ha legalmente infranto gli zaibatzu, i possenti complessi che abbracciano industrie, banche, reti di distribuzione interne ed estere, e che hanno dominato la vita dell'impero: ma, all'allentarsi delle briglie, si scopre che Mitsubishi, Mitsui, Sumitomo e compagni, hanno saputo darsi legami diversi e rimanere in piedi uniti come prima. Sono colossi dal prestigio economico mondiale, che fanno presto a riannodare il colloquio con le altre potenze. Lo sguardo degli industriali è subito, senza esitazioni, rivolto oltreoceano: MItMIlM IM r 11 i IIMilMII Itili! IIMIIMIIIIIIII il Giappone è povero di materie prime, occorre importarle (e pagarle), trasformarle in prodotti dalla qualità almeno pari e dal costo inferiore a quelli della concorrenza internazionale, in modo da poterli espertare (ed incassare). Per avviare questo meccanismo occorre per prima cosa danaro, e con un'audacia senza pari (ecco, già, uno dei segreti) le industrie non esitano a prendere a prestito dalle banche cominciando naturalmente da quelle che fanno parte del loro stesso zaibatzu. L'autofinanziamento delle aziende non arriva in media al trenta per cento; il settanta viene dagli istituti di credito (i cui depositi vengono alimentati soprattutto dai piccoli risparmiatori: non c'è giapponese per quanto povero che non abbia il suo libretto). Gli esperti stranieri possono criticare questo costante indebitamento, ma devono ammettere che il sistema funziona. E funziona perché la banca, come qualsiasi altra al mondo, concede ovviamente solo a chi dà fiducia, ma con maggior audacia che altrove (secondo segreto/). Come risultato, anche sul piano sociale, il personaggio più importante del paese non è il generale d'anteguerra o l'industriale come in Occidente, ma il banchiere. Fin dai primi anni della nuova espansione, gli imprenditori giapponesi hanno avuto il grosso merito di capire che non bastava importare solo materie prime. Senza trascurare la vecchia gamma di prodotti che aveva portato in giro per il mondo il non sempre prestigioso made in Japan (dalle cotonate alle biciclette, dalle sete alle macchine da cucire), occorreva lanciarsi nei settori dall'importanza sempre più decisiva, a tecnologia sempre più avanzata. Senza perdere tempo in disquisizioni come quelle oggi alla moda in Europa sul gap, i nipponici si sono messi ad importare knowhow, conoscenze tecniche, comprando brevetti (copiandoli qualche volta, mormorano i concorrenti), applicandoli, migliorandoli. Il sistema viene giudicato molto discutibile dagli esperti stranieri; ma, al solito, ha funzionato: in campo tecnologico, il Giappone di oggi ha poco da invidiare, e qual- cosa da insegnare, ai paesi più progrediti. In parole povere, ad uso dell'uomo della strada, sono passati i tempi in cui made in Japan poteva essere interpretato come sinonimo di paccottiglia. Ma risolto progressivamente il problema della qualità, rimaneva — sempre ai fini dell'esportazione e della concorrenza internazionale — quello del costo del prodotto ed in particolare della mano d'opera. E sotto questo aspetto — anche se oggi non amano parlarne — il vantaggio degli imprenditori nipponici è stato d'importanza decisiva specie nella fase iniziale del « decollo y quando la riserva di braccia sembrava inesauribile anche per l'afflusso costante dalle campagne (più di mezzo milione di contadini all'anno dal '1,6 al '65). Sia per la legge economica della domanda e dell'offerta, sia per la linea politica di tutti i governi che si sono succeduti, sia per la debolezza dei sindacati, i salari sono sempre stati di gran lunga i più bassi di quelli di qualsiasi altro paese moderno. Ho l'impressione che lo siano tuttora, anche se esperti giapponesi cercano di dimostrarmi che si stanno rapidamente avvicinando ai nostri: secondo certe loro statistiche di un anno addietro, la media salariale oraria nell'industria manifatturiera nipponica è di 52 centesimi di dollaro, contro quella italiana di 59. Chiedo se in queste cifre sono compresi gli oneri previdenziali: «No — rispondono trionfanti — noi dobbiamo aggiungere un dieci per cento e andiamo a 57 centesimi ». « E noi — dico io — dobbiamo aggiungere un ottanta per cento, e così passiamo il dollaro y. « Ah, no — protestano gentili ma energici — allora noi dovremmo tener conto di mense, negozi, alloggi, vacanze, tutto a prezzo speciale, che le nostre grandi aziende concedono ai dipendenti x. Osservo che solo un terzo dei lavoratori dell'industria è occupato nelle « grandi aziende y; gli altri due terzi — circa dieci miZiont di persone — prestano la loro opera in una miriade di fabbriche che spesso sconfinano nell'artigianato (ci sono quattrocentomila imprese con dieci operai ciascuna) o nel lavoro a domicilio (qualche macchina installata in una stanza). Le paghe di costoro erano due anni addietro inferiori del Z5Vo (nel 1951,, del 1,6*70) a quelle della grande industria; i loro padroni hanno tendenza, più che a concedere benefici, ad evadere gli obblighi previdenziali. Il distacco nel costo del lavoro sta attenuandosi, ma per ora è ancora forte: in mancanza di qualsiasi studio comparativo e in attesa di controllare in qualche specifico settore, la mia prima impressione è che l'onere globale salariale del datore di lavoro giapponese sia sempre del venti-trenta per cento inferiore a quello dell'italiano (si faccia lo stesso raffronto con l'americano, spesso diretto concorrente). Per questa modica spesa, il nipponico ha maestranze che oggi non temono il confronto qualitativo con quelle di qualsiasi altro paese: il cento per cento dei giapponesi (e quindi anche l'ultimo dei manovali) va a scuola fino al quindicesimo anno, il quarantacinque per cento (e quindi anche molti dei futuri operai) arriva al diploma del diciottesimo anno (il sedici per cento continua all'Università). Sono dunque meno misteriosi di quanto sembrino i segreti della tumultuosa espansione: capacità ed audacia di industriali, banchieri, commercianti, favoriti dalla politica liberistica di tutti i governi che si sono succeduti nel dopoguerra; contenimento dei consumi, attraverso bassi salari, a vantaggio della produzione \ zst e dell'esportazione; conti- j nua acquisizione tecnologica ed alta qualità delle maestranze. Tutto vero, tutto giusto: ma qualcosa di segreto, di inafferrabile per la mente occidentale, rimane. Penso alle nostre fabbriche, ai nostri operai, quando sento che alla grande e prospera Matsushita (impianti elettrici) migliaia di lavoratori non cominciano e non finiscono la giornata se non al canto di questo inno: «Per un nuovo Giappone - uniam cervelli e braccia - facendo l'impossibile per aumentar la produzione - mandando le nostre merci ai popoli del mondo - senza Interruzione senza fine - come l'acqua che sprizza dalla fonte - cresci industria cresci cresci cresci - armonia e sincerità - Matsushita Elettrica x Giovanni Giovannini tornano a casa. Le giovani assunte ultimamente saranno perciò portate direttamente a Tokio in aeroplano a spese della ditta, la quale spera, in tal modo, di procurarsi settecento nuove impiegate. Copyright di « The Times » e per l'Italia de «La Stampa»

Persone citate: Giovanni Giovannini, Mac Arthur